Cristiani in Africa, vittime dei rapitori e dei terroristi
Buone e cattive notizie per i cristiani in Africa. I religiosi rapiti da una milizia separatista in Camerun sono stati liberati. Ma per ogni notizia buona, ve ne sono molte altre cattive. In Nigeria la situazione è sempre grave: un sacerdote rapito, luoghi di culto attaccati. E in Congo aumenta il terrorismo dello Stato Islamico.
Sono stati liberati il 22 ottobre in Camerun, dopo 45 giorni di prigionia, i cinque sacerdoti e gli altri ostaggi rapiti dai separatisti anglofoni che dal 2017 sono in guerra con il governo controllato della maggioranza di lingua francese del paese. Il sequestro è avvenuto la sera del 16 settembre quando degli uomini armati hanno attaccato la chiesa di Santa Maria, nel villaggio di Nchang che fa parte della diocesi di Mamfe, l’hanno profanata e le hanno dato fuoco per poi dileguarsi portando con sé, oltre ai sacerdoti, una suora, un catechista, una donna che lavora come cuoca nella parrocchia e una ragazza.
Sembra che per la loro liberazione non sia stato pagato alcun riscatto. Lo ha dichiarato il portavoce della diocesi di Mamfe e lo conferma un video, realizzato al momento della liberazione, in cui uno degli ostaggi a nome di tutti ringrazia i rapitori per averli rilasciati senza ricevere niente in cambio. Nei giorni successivi al sequestro, la Conferenza episcopale del Camerun aveva in effetti dichiarato che, per non creare un pericoloso precedente, non avrebbe ceduto alle richieste dei rapitori i quali inizialmente avevano chiesto 100mila dollari per poi scendere a 50mila. Gli autori del sequestro sono stati identificati come Freedom Fighters of Ambazonia, una denominazione finora mai usata. Ambazonia è il nome dato dai separatisti alle regioni sud e nord occidentali dove vive la maggior parte della popolazione di lingua inglese. Secondo quanto riferito all’agenzia Fides che ha riportato la notizia, potrebbe trattarsi di un nuovo gruppo, ma non si può escludere che sia invece una banda criminale dedita ai sequestri a scopo di estorsione che si nasconde dietro una sigla politica.
Mentre la Chiesa in Camerun festeggia il ritorno a casa dei suoi sacerdoti, dalla vicina Nigeria arriva la notizia del rapimento quasi sicuramente a scopo di estorsione di un sacerdote, l’ultimo di una ormai lunga serie. La vittima è padre Joseph Igweagu, parroco di San Giuseppe, una parrocchia della città di Abata Nsugbe situata nello Stato di Anambra, nel sud del Paese. Il sequestro risale al 12 ottobre, riferisce l’arcidiocesi di Onitsha di cui la parrocchia di san Giuseppe fa parte. Padre Igweagu è stato rapito mentre stava tornando in canonica dopo aver celebrato una messa funebre a Umunnachi, una città a circa 150 chilometri da Abata Nsugbe. L’Anambra è uno degli Stati della federazione nigeriana dove si verificano più rapimenti a scopo di estorsione, un crimine ormai diffuso in gran parte del Paese, del tutto incontrollato come d’altronde lo sono le altre attività criminali, gli scontri tra comunità di pastori e di agricoltori, gli attacchi e gli attentati a carattere religioso che rendono sempre più insicura l’esistenza in Nigeria. La violenza non risparmia neanche i luoghi di culto. Dall’inizio dell’anno almeno sette tra chiese e moschee sono state attaccate. L’ultimo attacco risale alla sera del 16 ottobre. Uomini armati hanno fatto irruzione nella Celestial Church of Christ di Felele Lokoja, nello stato centro meridionale di Kogi. Sparando a raffica hanno ucciso una donna, una ragazzina sua figlia e hanno ferito almeno tre persone. Si ignora al momento l’identità dei malviventi e le ragioni dell’attacco.
La situazione è grave al punto che Aisha Buhari, la moglie del presidente della repubblica Muhammadu Buhari, ha pensato di scusarsi con i suoi connazionali che – così ha detto intervistata dalla Bbc – sicuramente avevano nutrito grandi speranze di cambiamento, quando per due volte avevano eletto presidente suo marito, ma “forse” adesso pensavano che le loro aspettative fossero state deluse.
Ancora più grave è il bilancio delle vittime dell’attacco al villaggio di Maboya, nella provincia del Nord Kivu situata nell’est della Repubblica democratica del Congo, una regione in cui operano pressoché incontrastati decine di gruppi armati. Nella notte tra il 19 e il 20 ottobre molti uomini armati hanno distrutto incendiandoli un centro sanitario gestito dall’ufficio sanitario della diocesi di Butembo-Beni e un ospedale di proprietà di una comunità protestante. Durante l’incursione sono state uccise sette persone tra cui suor Marie-Syvie Kavuke Vakatsuraki, della congregazione congolese Petites Sœurs de la Présentation de Notre-Dame, che prestava servizio come medico nel centro sanitario diocesano. Secondo un infermiere superstite, alcune delle vittime erano pazienti ricoverati. “Hanno ammazzato persino alcuni ammalati” ha detto all’agenzia France Press. Un altro testimone ha raccontato che, oltre ai due centri sanitari, sono state saccheggiate e bruciate diverse abitazioni. La popolazione locale ritiene che ad attaccare Maboya siano stati i jihadisti Adf (Allied democratic forces), di origine ugandese ma attivi in Congo, che nel 2019 hanno aderito allo Stato Islamico e da allora sono affiliati alla Iscap (Islamic State’s central Africa province). Lo conferma un comunicato in lingua araba diffuso sui social media che rivendica l’attacco a nome dell’Iscap. Anche l’esercito congolese sostiene che si tratta di militanti Adf. Dice di averne catturati quattro tra cui un uomo che pare abbia fornito indicazioni logistiche al commando autore dell’azione.