Crediti a Mosca e Medio Oriente stabile: Trump è già sulla scena
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Con la destituzione di Assad in Siria che indebolisce Russia e Iran, la linea di Trump è già molto chiara: stabilizzazione in Medio Oriente con un riequilibrio a favore di Israele e dei sunniti, ma aperture di credito a Mosca per un accordo complessivo di sicurezza nell'Europa dell'Est. E intanto l'Europa sta a guardare ed è rappresentata dall'inerzia di Macron al trilaterale di Parigi.
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Nelle ultime settimane gli equilibri della politica internazionale, tra il fronte russo-ucraino e quello mediorientale, hanno subìto una rapidissima evoluzione. Un'evoluzione che rappresenta il precipitato di vari fattori operanti negli ultimi anni, ma sulla quale si può già scorgere l'impronta lasciata dal ritorno a pieno titolo sulla scena politica mondiale di Donald Trump, ancora prima dell'inizio del suo secondo mandato come presidente degli Stati Uniti, durante l'inaugurazione della restaurata cattedrale di Notre Dame a Parigi. In quella sede la sua figura si è imposta infatti inequivocabilmente come il principale e più autorevole punto di attrazione di colloqui, contatti e aspettative da parte dei leader occidentali.
In merito al conflitto tra Mosca e Kiev il presidente eletto statunitense ha fornito alcuni segnali molto significativi dello spirito con cui egli intende impegnarsi per una trattativa, come promesso nella sua campagna elettorale. L'incontro trilaterale da lui tenuto a Parigi con il presidente ucraino Zelensky e con Emmanuel Macron è sembrato essere in realtà un bilaterale, in cui il presidente francese, vistosamente indebolito politicamente, ha giocato solo il ruolo di una comparsa, e che ha avuto come risultato una forte spinta di Trump al leader ucraino per accettare un cessate il fuoco il più possibile immediato ed eventuali perdite territoriali come esito della trattativa con Mosca, pena la minaccia di tagli decisivi nelle forniture di armi americane a Kiev.
In un post molto politicamente "pesante" sul suo social Truth Trump ha poi sottolineato come entrambi i contendenti della guerra siano esausti, e come essa «non sarebbe mai dovuta iniziare». Ha citato confidenzialmente Putin chiamandolo per nome, "Vladimir", come un potenziale serio interlocutore, e la Cina come un potenziale facilitatore dell'intesa. E ha condito il tutto con la reiterazione, in un'intervista alla ABC, della minaccia di uscire dalla Nato se gli alleati non assumeranno oneri adeguati nelle spese per la difesa: minaccia che, per altro verso, può apparire come una volontà di relativo disimpegno dal Vecchio continente non sgradita a Mosca.
Insomma, nel giro di un giorno il leader in pectore della prima superpotenza mondiale ha già giocato carichi da novanta, ponendosi al centro di ogni possibile sviluppo positivo della crisi, e marcando una differenza abissale rispetto alla linea a un tempo bellicosa e debole tenuta dall'amministrazione Biden.
Intanto, proprio nelle stesse ore nello scacchiere mediorientale si verificava un mutamento decisivo, con effetti che probabilmente si riveleranno fondamentali anche per i rapporti tra Occidente e Russia. In Siria, infatti, il regime di Bashar al Assad è caduto rovinosamente sotto i colpi dei miliziani ribelli islamisti di HTS. Un crollo che fino a pochi giorni prima nessuno si aspettava così rapido, e che determina una significativa redistribuzione delle influenze in tutta la regione.
Esso rappresenta innanzitutto una grave sconfitta per la Russia, di cui la Siria degli Assad è stata per decenni il principale alleato in Medio Oriente. Ma anche per l'Iran degli ayatollah, che con essa, spalleggiato da Russia e Cina, aveva costituito un vero e proprio asse della destabilizzazione imperniato sulla comune appartenenza sciita, e fondato sul braccio armato di organizzazioni estremiste come Hezbollah e Hamas. Un asse che oggi appare profondamente in crisi in seguito alla impressionante risposta all'eccidio del 7 ottobre 2023 messa in campo dall'esercito e dal controspionaggio di Israele, risoltasi nella quasi totale distruzione di quelle organizzazioni, e allo scacco militare imposto a Teheran.
La conquista di Damasco da parte degli ex affiliati di al Qaeda guidati da Abu Mohammed Al Jolani significa, insomma, nell'immediato un rafforzamento di Israele, della presenza turca nella regione, e più in generale dell'islam sunnita rispetto alle ambizioni di potenza iraniane. In questo senso, pur aprendo una serie di inquietanti incognite sul destino della Siria – in particolare della componente cristiana e curda della popolazione di quel paese – essa potrebbe avere come effetti a breve termine da un lato il consolidamento del percorso degli "accordi di Abramo" promossi da Trump nel suo primo mandato e la realizzazione finalmente della convergenza tra israeliani e sauditi, con il beneplacito degli altri paesi sunniti e la sostanziale neutralità della Turchia, soddisfatta dal peso maggiore acquisito; dall'altro un ridimensionamento del profilo di potenza ad ampio raggio della Russia putiniana, funzionale a favorire un suo atteggiamento più ragionevole e realista proprio in eventuali trattative per la soluzione del conflitto russo-ucraino.
Non a caso, nel corso del suo soggiorno parigino il presidente eletto statunitense ha preso la palla al balzo anche su questo tema, utilizzandolo come spinta ulteriore dell'inerzia della politica internazionale nel senso da lui desiderato. Nel già citato post su Truth il tycoon ha rimarcato infatti impietosamente come la perdita del controllo su Damasco da parte di Mosca sia anche il frutto delle ingenti risorse sprecate da Putin nel conflitto con l'Ucraina. E in un tweet pubblicato sabato 7 ha tenuto a sottolineare che il controllo della Siria non interessa a Washington («this is not our fight»), che la Russia stessa non ne traeva nessun beneficio, e che essa farebbe bene a concentrarsi su una soluzione alla crisi ucraina.
La linea di Trump sembra, dunque, molto chiara: stabilizzazione in Medio Oriente mediante un riequilibrio a favore di Israele e dei sunniti da un lato, apertura di credito a Mosca (e indirettamente a Pechino) per un accordo complessivo di sicurezza nell'Europa dell'Est. Probabilmente basato, quest'ultimo, non solo su concessioni territoriali ma su più formali impegni americani a non ampliare la Nato oltre un certo limite, e a riconoscere alla Russia un'area di influenza. Anche tenuto conto dei pericolosi "conflitti di faglia" pronti a esplodere in aree di confine di potenza e di civiltà come la Georgia, la Moldavia o la Romania.
E l'Europa? Come si ricollocheranno i membri europei della Nato e la Ue rispetto a questi rapidi, tempestosi mutamenti?
Al momento la loro posizione sembra, purtroppo, riassunta dalla posa imbarazzata di Macron a Parigi davanti all'imponente Trump: una presenza goffa, imbarazzata e impotente. Per anni essi sono rimasti schiacciati sulla linea bellicista senza sbocchi di Biden in Ucraina, e hanno tenuto atteggiamenti ambigui in Medio Oriente, incoraggiando le provocazioni di Teheran e dei suoi proxy. Ora appaiono del tutto impreparati a mettere in atto un'azione coerente di politica estera nel senso del rinnovamento della loro vocazione alla stabilizzazione e al dialogo all'interno dello schieramento occidentale.