Covid, ancora infodemia e pronto soccorso pieni
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Ancora titoli sul Covid, ancora enfasi sui contagi, ancora faq per sapere se possiamo abbracciarci a Natale. E la notizia grave è che i pronto soccorso sono già saturi. Ritorno al 2020?
Titolo del Corriere della Sera: Covid, come comportarsi a Natale: evitare gli abbracci? Stiamo parlando di un numero storico del Natale 2020? No, questo titolo era in primo piano nell’edizione online del 17 dicembre scorso (2023). In effetti cambia qualcosa: se si legge tutto l’articolo, organizzato in domande e risposte, come le Faq governative dei tempi pandemici, troviamo suggerimenti molto più rassicuranti. Sappiamo, ad esempio, da Francesco Vaia (direttore dell’ufficio Prevenzione del Ministero della Salute) che possiamo abbracciarci a Natale. Apprendiamo inoltre che il vaccino è consigliabile ai fragili e agli ultra-sessantenni e che è una scelta personale, comunque. E la mascherina non è più obbligatoria.
Un altro titolo che induce a fare un tuffo nel passato di tre anni fa è Covid e influenza, pronto soccorso lombardi da bollino nero. Lo citiamo sempre dal Corriere, che è il quotidiano più venduto, ma la notizia è ripresa da tutti i quotidiani, anche locali.
Insomma, le notizie sono diverse, l’umore del pubblico è cambiato drasticamente, gli articoli sono differenti e così anche i consigli degli esperti citati, ma i titoli narrano sempre la stessa paura. E anche l’importanza che viene data a Covid e all’influenza è sproporzionata rispetto all’entità del rischio. Un titolo è importante. Un posizionamento in pagina è importantissimo. È ciò che fa la narrazione. È una precisa scelta editoriale per dire ciò che è importante rispetto a ciò che non lo è.
Giunti al 2023, con un Covid sempre meno letale e preoccupante, non è normale continuare a chiederci cosa possiamo o non possiamo fare a Natale. Non è normale chiederci se possiamo tornare ad abbracciarci. Certo che lo possiamo fare: già dalla fine del 2021, almeno, con la diffusione di varianti molto meno letali del coronavirus. Non è normale continuare a leggere notizie sui contagi e sul loro aumento.
Questo allarmismo, indotto, è la prima dimostrazione che non abbiamo imparato la lezione del 2020. L’errore che è stato commesso è l’opposto rispetto a quello che si commise per l’influenza spagnola del 1918-20. In quel caso, di un secolo fa, durante la fase finale della Grande Guerra, la stampa provò a cancellare il problema, non parlandone, per evitare di demoralizzare la popolazione e le truppe al fronte. In questo caso, invece, la stampa ha suonato l’allarme ai quattro venti per indurre il governo a “fare qualcosa”. Così è stato in Italia, con il governo Conte, poi in tutto il resto d’Europa, salvo la Svezia. Che infatti è stata continuamente accusata di irresponsabilità.
Il governo Conte, spinto dai media, ha “fatto qualcosa”, l’unica cosa semplice, suggerita dalla Cina, che poteva fare a costo pressoché nullo per le istituzioni: obbligare i cittadini a stare a casa, a prescindere dal loro stato di salute e dal costo (umano, professionale, economico) che hanno dovuto affrontare. Non appena è stato brevettato un vaccino, gli Stati hanno fatto quel che sanno fare meglio: una campagna di vaccinazione di massa, senza badare ai casi singoli, non parlando di eventuali effetti avversi e ricorrendo all’obbligo contro minoranze recalcitranti.
Almeno questa lezione è stata appresa. Oggi i media possono suonare ancora l’allarme, ma il governo Meloni è meno recettivo. Sta affrontando il problema con più sangue freddo e meno decisioni irrazionali. Non si vedono all’orizzonte nuovi provvedimenti anti-pandemici straordinari, come divieti di assembramento, obbligo di mascherina, o limiti agli spostamenti dei cittadini, né la quinta dose del vaccino viene imposta ad alcuna categoria.
Entrambe le misure di massa adottate dal governo Conte, il lockdown prima e la campagna vaccinale di massa poi, sono state introdotte soprattutto per evitare di saturare un sistema sanitario già affollato, quindi insufficiente. La notizia dei pronto soccorso lombardi già saturi, anche se non siamo in un periodo di emergenza paragonabile al 2020, sono la dimostrazione che non si è appresa la seconda lezione della pandemia: ancora oggi non abbiamo medici di base a sufficienza. Se con l’influenza si finisce al pronto soccorso, vuol dire che manca un medico di base che prevenga il ricovero, con cure mirate, a domicilio.
Nel corso delle prime ondate di Covid questo problema era emerso in tutta la sua drammaticità e, forse per nascondere la carenza del sistema, parlare di “cure domiciliari”, per chi contraeva la nuova malattia, era diventato un tabù. Si poteva essere accusati di parlare contro la scienza, di fare disinformazione, di essere dei ciarlatani. Ma il problema c’era allora con il Covid e si vede a maggior ragione in queste settimane: senza medici di base, il pronto soccorso si satura e anche i malati ammessi in ospedale rischiano la vita perché curati in ritardo. Ricorrere all’ospedalizzazione per tutti, nel 2020, non ha contribuito a salvare vite. Anzi, ha contribuito a rendere gli ospedali luoghi di contagio fra i peggiori.