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Intervista / Don Barbera

«Così assolsi a distanza Livatino, giudice che viveva la fede»

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Per il 35° anniversario dell’uccisione di Rosario Livatino, la Bussola intervista don Filippo Barbera, il sacerdote che il 21 settembre 1990 diede al futuro beato, crivellato di pallottole dai mafiosi della Stidda, l’assoluzione sub conditione.

Ecclesia 20_09_2025

Domani ricorre il 35° anniversario della morte del giudice Rosario Livatino (1952-1990), ucciso dalla Stidda (un’organizzazione mafiosa) il 21 settembre 1990 e proclamato beato nel 2021, con la Chiesa che ha riconosciuto il suo martirio in odium fidei. La mattina di quel 21 settembre don Filippo Barbera, allora ventiseienne e ordinato meno di un anno prima, si stava recando ad Agrigento dal vescovo diocesano, ignaro che quel giorno avrebbe segnato la sua vita. Dovendo deviare per Canicattì, a causa di un’interruzione lungo la strada, don Barbera si ritrovò sul luogo in cui era appena stato ucciso Livatino. La Nuova Bussola lo ha intervistato.

Don Filippo Barbera, cosa ricorda di quel 21 settembre? Conosceva il giudice Livatino?
Non conoscevo il magistrato Livatino, ma ricordo che, una volta arrivato in curia, quando ne diedi notizia al mio vescovo ne rimase sconvolto. «Ne hanno ucciso un altro ancora», mi disse. Era un periodo molto difficile sia per la nostra provincia che per la diocesi. Per undici anni sono stato parroco a Naro, una delle parrocchie più giovani della periferia, e ricordo che solo io ho celebrato sette funerali di persone assassinate. Mi è capitato di celebrare funerali con la scorta dei carabinieri.

Lei può “vantare” di aver dato l’assoluzione, sebbene a distanza, a un beato… Ci può raccontare come avvenne?
Fu un momento toccante. Vidi una fila di auto ferme. Mi fermai a mia volta e scesi dall’auto. In seminario ci avevano insegnato a portare sempre dietro l’olio degli infermi, nel caso ci fosse stato da dare qualche unzione. Mi feci avanti, scavalcai il guard rail e scesi lungo la scarpata, ma le forze dell’ordine mi fermarono perché non intralciassi le indagini. Allora pensai di dare l’assoluzione sub conditione e così feci. Io ero alle prime armi del sacerdozio, era la prima volta che vedevo una persona uccisa, trucidata in quel modo, per cui riconosco di aver avuto la grazia di stato, l’aiuto del Signore. Infatti, la prima cosa che pensai, in quel momento, fu quella di precipitarmi a prestare soccorso. I primi tempi, passando per quella stessa strada, recitavo un Eterno riposo per Livatino, ora dico: «Prega per noi»! Ho potuto prestare il mio ministero per il beato, e penso che lui una mano da Lassù me la darà!

Lei racconta di aver subito pensato a dare l’assoluzione alla vittima: è un particolare importante, visto quanto Livatino mettesse la fede al primo posto. Qualche episodio, al riguardo, che la colpisce?
Livatino aveva una vita di fede. Un sacerdote confratello, oggi defunto, ha testimoniato che lui ogni mattina sostava in preghiera nella chiesa di San Giuseppe che si trovava accanto al vecchio tribunale di Agrigento. Prima di entrare nel palazzo di giustizia si fermava in preghiera davanti al Santissimo. Il suo motto, Sub Tutela Dei, lo viveva realmente.

Livatino affermava che «rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, dedizione di sé a Dio». Nella sua relazione Fede e diritto (1986) affronta temi come l’eutanasia, la fecondazione artificiale, l’obiezione di coscienza contro le pratiche abortive, ribadendo la «sacralità e l’inviolabilità della vita umana». Oggi è sempre più raro trovare un giudice che parli del legame tra fede e diritto…
Livatino non aveva paura di vivere la sua fede nel sociale. Non cedeva ad alcun tipo di “rispetto umano”. Era attento a testimoniare sempre la verità, oggi è sicuramente importante riportare il suo esempio.

Le testimonianze confermano che il giudice Livatino aveva anche un’attenzione particolare verso l’imputato.
Livatino insisteva molto sul recupero della persona, sulla pena intesa come educazione e non come “colpo di grazia” da infliggere. In questo si vedeva il suo rapporto con il prossimo, con l’imputato, a cui voleva dare la mano dopo averlo ascoltato. Una volta, qualcuno gli chiese se si fosse reso conto a chi avesse stretto la mano, e lui rispose tranquillamente: «Sì, a una persona»!

Livatino  affermava che compito del magistrato è quello «di dare alla legge un'anima, tenendo sempre presente che la legge è un mezzo e non un fine». Viveva il suo lavoro come una missione?
Sì, e questo in fondo è il compito del laico nella società: dare un’anima alla società, animare il sociale. È il compito del cristiano impegnato, come afferma anche il decreto Apostolicam Actuositatem del Concilio Vaticano II.

Poco prima di morire, Livatino si rivolse ai suoi assassini dicendo: «Cosa vi ho fatto, picciotti?». Si aspettava che prima o poi sarebbe stato attaccato, ma ha vissuto la vera giustizia come missione fino alla fine… Cosa ci insegna questo?
Il beato Rosario Livatino aveva la coscienza di aver agito per il bene, non per danneggiare qualcuno. Così un po’ come il beato don Pino Puglisi. Il bene, infatti, dà fastidio a chi vuole operare nelle tenebre e fa male a chi vive nel male. È evidente che Rosario si aspettasse qualche colpo della mafia, aveva toccato dei nervi scoperti, non aveva voluto la scorta per non mettere a repentaglio la vita di altre persone e si spostava con la sua auto, usando le prudenze del caso. «Beati gli operatori di giustizia», dice Gesù nel Vangelo. E chiunque si accosta con animo retto e sincero alle cose di Dio e alle cose degli uomini, rende lode a Dio perché Lui è il vero e sommo Bene, la Verità per eccellenza.



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