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LA QUESTIONE

Cosa fare delle opere di Rupnik, criteri per il dibattito

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Il caso Rupnik porta con sé anche il problema di cosa fare delle opere del gesuita sloveno. I suoi libri affrontano temi legati alla sua condotta immorale. Riguardo all’arte, c’è chi lo difende richiamando i casi di Michelangelo e Lippi. Ma il paragone non regge a livello artistico. E, soprattutto, Rupnik ha elaborato una falsa fede e falsa mistica per irretire le sue vittime.

Ecclesia 17_02_2023

Il “caso Rupnik” porta con sé un’enormità di problematiche, che va oltre la persona che ha commesso quanto emerso in questi mesi e le vittime dei suoi atti. Sicuramente, il problema più prossimo ai fatti in questione riguarda tutta quella rete di coperture, silenzi, complicità che ha permesso a Marko Rupnik di compiere indisturbato per oltre trent’anni gravi atti di natura sessuale nei confronti di religiose e, nel contempo, di mostrarsi come maestro di arte liturgica e spiritualità, chiamato ovunque, persino in Vaticano, per predicare ritiri, esercizi, fare conferenze. Una rete che ogni settimana si arricchisce di nomi nuovi, che fino ad ora continuano a rimanere tranquillamente ai propri posti.

C’è anche il problema dell’incredibile mole di opere artistiche e libri che il gesuita ha prodotto in tutti questi anni. È stata un’operazione relativamente facile e veloce quella del Consiglio universitario della Pontificia Università Cattolica di Paraná di revocare il titolo di dottore honoris causa conferito a Rupnik il 30 novembre 2022, perché, «alla luce dei fatti ampiamente riportati», il gesuita viene ritenuto «“indegno” di tale riconoscimento».

Più difficile è invece capire cosa fare delle sue opere. Se diamo un’occhiata alle sue pubblicazioni, ci rendiamo conto che è davvero arduo, se non impossibile, preservare questi scritti dall’onta del loro autore. Si tratta infatti perlopiù di scritti di spiritualità, che affrontano tematiche legate a filo doppio con la condotta di Rupnik. Ci riferiamo, per esempio, a L’esame di coscienza. Per vivere da redenti (Lipa, 2008) o Il discernimento (Lipa, 2004); pensare che a dare indicazione su questi aspetti importanti della vita cristiana sia un religioso che ha vissuto costantemente nel peccato grave, giustificandolo “teologicamente”, non può lasciare indifferenti.

Non meno problemi solleva il libro dedicato alla vita religiosa, Vedo un ramo di mandorlo (Lipa, 2004), scritto insieme all’attuale direttrice del Centro Aletti, Maria Campatelli. «Da tanto tempo si avverte che nella vita religiosa qualcosa non va»: così esordisce la descrizione del volume sul sito della casa editrice del Centro, volume che dovrebbe offrire una lettura critica della crisi attuale della vita religiosa e le linee per una rinascita. Imbarazzante. Ancor più imbarazzante è Adamo e il suo costato. Spiritualità dell'amore coniugale (Lipa, 1996): nulla da obiettare sull’eros che «diviene una forza che fa uscire da sé, che apre all’altro e che non dà pace finché non porta alla comunione, all’unione», ma difficile soprassedere su come la persona che ne parla, e che ha fatto voto di castità, lo abbia tradotto nella propria vita.

Sul versante delle opere artistiche, in particolare la realizzazione di mosaici nelle chiese, la situazione appare ancora più complessa. Si tratta di oltre duecento realizzazioni, situate prevalentemente in Europa, che toccano luoghi molto importanti per la fede cattolica, come il Laterano e San Giovanni Rotondo, Lourdes, Fatima e Cracovia, ma anche piccole cappelle di comunità religiose. Ci sono state alcune prese di posizione in difesa delle realizzazioni di Rupnik. Il gesuita spagnolo José Ignacio González Faus ha portato come argomento principale una «ragione di coerenza»: «è ingiusto trattare in modo diverso delinquenti uguali. Se distruggiamo le opere di Rupnik, dobbiamo distruggere anche l'intera Cappella Sistina dell'immorale Michelangelo; dovremmo eliminare tutti i quadri di Fra Filippo Lippi, perché la Madonna che dipinse era una bellissima novizia (Lucrezia) con la quale aveva dormito la notte prima». Ma sono proprio così uguali i “delinquenti”?

Anche il vescovo di Losanna-Ginevra-Friburgo, mons. Charles Morerod, ha voluto in qualche modo blindare le opere di Rupnik. Le chiese della città di Ginevra ospitano tredici realizzazioni dell’artista gesuita, ognuna delle quali costituisce una stazione del Chemin de Joie, inteso come un compimento della Via Crucis. Pur esprimendo comprensione per le vittime, Morerod ritiene che la rimozione delle opere di Rupnik sarebbe una «negazione della realtà» e, se potrebbe accontentare alcuni, finirebbe per scontentare altri e punire gli altri artisti che hanno collaborato con lui.

Ci sono però almeno un paio di elementi che in queste posizioni “benevole” non emergono. La prima è stata messa in luce da Andrew e Gwyneth Thompson-Briggs, in un interessante articolo per il National Catholic Register. Il punto non è che si debbano distruggere le opere di un artista che ha avuto una condotta di vita assai discutibile. Il “caso Rupnik”, rispetto ad esempio alla vita di Michelangelo, ha una particolarità che getta ombra su tutto il suo operato: il gesuita, infatti, «nel corso di una lunga carriera in seno alle strutture ufficiali della Chiesa, avrebbe sfruttato la sua autorità di sacerdote, teologo e artista sacro per fare di se stesso il profeta di un falso vangelo in cui il peccato è virtù e la virtù peccato. Secondo le accuse, padre Rupnik non solo abitualmente convinceva gli altri a peccare con lui, ma li convinceva che non era vero peccato peccare con lui, così che potessero prendere parte al suo pseudo-misticismo carnale».

Non si tratta dunque tanto di un peccato, per quanto grave, ma di una falsa fede e di una falsa mistica, che hanno supportato il modo di essere e di agire di Rupnik praticamente per tutto il corso della sua vita religiosa e sacerdotale e che hanno sedotto le sue vittime. I dettagli delle varie interviste che sono state finora rese pubbliche non parlano di un uomo fragile, di una caduta nella tentazione, ma dell’incarnazione di un vero e proprio pensiero pseudo-teologico, secondo cui quanto Rupnik compiva sessualmente doveva essere ritenuto espressione incarnata della pericoresi trinitaria e dell’incarnazione della caritas divina: una folle blasfemia, un falso vangelo difficilmente separabile dalle sue opere, artistiche e scritte. Tanto più che Rupnik, come affermano ancora Andrew e Gwyneth Thompson-Briggs, «ha goduto di una considerevole libertà artistica». Inoltre, nello stesso articolo viene sottolineato un elemento caratteristico delle rappresentazioni di Rupnik, un aspetto che ha da sempre inquietato molti, ossia le pupille interamente nere dei suoi personaggi, che «mancano di qualsiasi rappresentazione della luce riflessa che li penetra». «Gli occhi del Cristo e dei santi di padre Rupnik - continuano i due autori - sono privi di ogni luce, quasi raffigurassero non la Luce del Mondo, ma le Tenebre del Mondo, nelle quali vediamo solo tenebre. Si pensi al detto di Nostro Signore: “Ma se il tuo occhio è cattivo, tutto il tuo corpo sarà tenebroso. Se dunque la luce che è in te è tenebra, quanto grande sarà la tenebra!”» (Mt 6,23).

Il problema di Rupnik non è dunque quello di Michelangelo, di Lippi o di Bernini: il suo peccato è radicato e giustificato da una prospettiva “teologica” aberrante. Ma nemmeno le opere d’arte di Rupnik sono paragonabili a questi grandi artisti. Un artista italiano, che preferisce rimanere anonimo, perché «l’influenza di Rupnik, negli ambienti ecclesiastici, è ancora troppo forte», prende le distanze dalla “glorificazione” di Rupnik-artista. A prescindere dalla sua condotta personale, «i suoi soggetti riprendono le stilizzate illustrazioni dei messalini degli anni Sessanta e vengono ripresentati dentro gli schemi liturgici bizantini».

Il riferimento più prossimo delle opere di Rupnik, però, non è affatto il mosaico “bizantino”, ma quello di Mimmo Paladino, esponente del movimento artistico della transavanguardia. «L’arte di Rupnik - continua la nostra fonte - non è simbolica, ma allegorica, sbilanciata sul versante dell’astrazione, con una sfumatura di docetismo. Non sarebbe mai dovuta entrare nelle chiese». Il principio fondamentale dell’arte liturgica è infatti il realismo simbolico, che si fonda sull’irrinunciabile realismo dell’Incarnazione, ma senza ridursi ad un verismo. E suo principio ermeneutico è la liturgia. Le opere di Rupnik, invece, ci viene fatto notare, hanno bisogno di essere spiegate; diversamente, risultano incomprensibili. Sono infatti allegoriche, non simboliche; non è la liturgia il loro contesto interpretativo, ma l’opuscolo di spiegazione o la visita guidata.

Ma come è stato possibile allora che l’opera di Rupnik prendesse così tanto piede? «Gli iconografi non erano pronti, perché non andavano più in là del revival; Rupnik si è posto furbescamente a cavallo dell’onda e ci è riuscito». Nemmeno la committenza era pronta: l’analfabetismo dell’arte liturgica che affligge una parte non piccola della gerarchia e un certo fascino “esotico” per l’Oriente hanno fatto entrare uno stile astrattista nelle chiese. Il dibattito su cosa fare delle opere di Rupnik deve continuare; e non può essere risolto con il semplice riferimento a Michelangelo e dintorni.