Coronavirus e panico, quali sono i doveri del giornalista
Come gestire l'overdose informativa seguita al diffondersi dell'epidemia di coronavirus in Cina? I giornalisti hanno precisi doveri per evitare il panico, il sensazionalismo di cure miracolose e le teorie del complotto.
LA BOLLA MEDIATICA di Stefano Magni
Nella psicosi collettiva scatenata dal temuto Coronavirus, l’informazione sta giocando un ruolo di primo piano. Come sempre accade quando si diffonde il panico sui rischi per la salute, il confine tra il diritto di cronaca e i suggerimenti utili evapora. Ne viene fuori un mix esplosivo, in cui si fa fatica a distinguere le notizie obiettive, scientificamente vagliate e scrupolosamente documentate, dall’emotività irrazionale, che ingigantisce allarmi e contribuisce a disegnare scenari apocalittici.
In questo caso, peraltro, il tema delle fake news si pone in termini assai impattanti, perché non desta solo curiosità, non alimenta soltanto un vacuo sensazionalismo, ma genera preoccupazioni e produce modifiche sostanziali negli stili di vita e nelle abitudini di milioni di persone. E allora viene da chiedersi cosa debbano fare i giornalisti, soprattutto quelli che hanno una platea molto folta, per calmare gli animi e tentare di separare le informazioni serie e certificate dal chiacchiericcio sterile e fuorviante.
Per contenere le imprecisioni, arginare il sensazionalismo e scongiurare la deriva di social influenzati dalle fake news, il Presidente del Consiglio Nazionale dell’Ordine dei giornalisti, Carlo Verna ha lanciato un appello agli operatori dell’informazione per una scrupolosa verifica delle fonti. "La prima emergenza per un virus nell’epoca dei social - scrive Verna in una nota diffusa alle redazioni - richiama i giornalisti professionali ad un eccezionale sforzo di comprensione equilibrio e responsabilità. E’ necessaria un’informazione piena e verificata, senza sottacere gli eventuali rischi e le cautele da attuare, ma sono assolutamente da evitare enfatizzazioni e allarmismi. Siamo noi giornalisti professionali - continua Verna - a dover costituire un modello anche per chi comunica attraverso i social, e da quella comunicazione dobbiamo evitare di correre il rischio di uscirne condizionati. L’appello è quello ad usare le regole di sempre, applicando un’accurata e scrupolosa verifica delle fonti".
Le parole di Verna vanno lette come un riferimento chiaro e puntuale al rispetto della deontologia giornalistica. In particolare va menzionata la Carta di Perugia sui diritti del cittadino malato, del gennaio 1995, che raccomanda ai giornalisti di riportare con scrupolo e coscienza le notizie riguardanti la salute. In un passaggio di quel documento deontologico si legge che "è impegno comune la non diffusione di informazioni che possano provocare allarmismi, turbative ed ogni possibile distorsione della verità". Dunque, gli operatori dell’informazione devono rifuggire tanto dall’euforia circa ipotetici effetti taumaturgici di cure e rimedi a malattie gravi quanto da allarmismi enfatizzati da canali non ufficiali.
Il Testo unico dei doveri del giornalista, del 2016, ha riattualizzato quei principi, contestualizzandoli nella civiltà multimediale nella quale ormai il giornalismo è pienamente immerso. Dunque, l’interazione tra media tradizionali e social pone al giornalista una responsabilità ulteriore in termini di verifica. Mai e poi mai il giornalista deve farsi cassa di risonanza di allarmismi veicolati da non giornalisti o da non esperti attraverso piattaforme social di condivisione.
All’epidemia del coronavirus rischia di affiancarsi un’epidemia di notizie false e di teorie complottistiche, che la stessa Organizzazione mondiale della sanità sta cercando di frenare sul nascere, evidenziando proprio i doveri di una buona informazione. Anche l’Onu sta lavorando alacremente per identificare le voci più diffuse e potenzialmente dannose per la salute della popolazione, ad esempio le false misure di prevenzione e le cure falsamente miracolose.
Tutti questi richiami dovrebbero fare perno su un altro dovere imprescindibile di una buona informazione: quello di un costante aggiornamento dei fatti di interesse pubblico fino alla loro ultima evoluzione. C’è, infatti, la concreta possibilità che questa overdose informativa sul coronavirus evapori da un giorno all’altro senza che nessuno informi l’opinione pubblica sulle sorti del virus e di chi lo ha contratto e sugli ipotetici prolungati rischi per la salute degli altri soggetti non investiti da esso. Il tema della continuità dell’informazione è già stato sollevato dalla Corte Costituzionale in una sentenza del 1993, nella quale la Consulta sottolineava come un’informazione corretta e completa dovesse essere anche continua, cioè aggiornata fino alla fine. I motori di ricerca, come sappiamo, indicizzano link di articoli scritti da altri e quindi è assai probabile che fra qualche mese, digitando la parola coronavirus in Google, possano risultare rintracciabili solo gli articoli scritti nei giorni critici dell’emergenza. Gli utenti,a distanza di tempo, resteranno dunque nel dubbio circa gli esiti di quella vicenda. La Rete è un immenso archivio di notizie. Ma se queste notizie non sono aggiornate, possono risultare fuorvianti e alimentare un altro virus devastante: la disinformazione.