Contro lo strapotere partitico e antipopolare. Io voto Si
Solo un giovane, estraneo alla grandi culture politiche dell’arco costituzionale, poteva tentare l’impresa di abbattere il primato istituzionale dei partiti, grandi associazioni private che controllano Camera, Senato, governo, Corte Costituzionale. Renzi con la sua riforma l’ha fatto. Ecco perché io voterò Si.
Caro direttore, ti propongo alcune osservazioni sull’articolo di Robi Ronza in merito al referendum costituzionale di ottobre.
1). Il Si e i No nel referendum decidono della sorte del governo? Certo che sì, anche se Renzi non avesse personalizzato. Sempre le revisioni costituzionali e, a maggior ragione, la Costituente hanno implicato interessi di governo e di partito. Pensare che le riforme di questo genere siano elaborate nel Sancta sanctorum dei costituzionalisti è un’ingenuità storica. De Gasperi ha seguito quotidianamente i lavori della Costituente e ha preso decisioni pesanti nel merito.
La governabilità del premier Renzi e di chiunque prenda il suo posto dipende dalle riforme istituzionali/elettorali. Se non passano, non solo si cambia Renzi, ma, soprattutto, si torna alle coalizioni instabili e impotenti. Allora addio Europa. Le riforme istituzionali/elettorali non sono solo questione interna. Il loro esito riguarda la nostra collocazione in Europa. Noi possiamo anche non capirlo. Ma in Europa lo hanno capito.
2). Fine del bicameralismo perfetto, dove “perfetto” significa che Camera e Senato svolgono le stesse funzioni, ambedue sono elettivi, ma eletti con sistemi elettorali diversi. A parte il problema non piccolo del raddoppio dei tempi legislativi, il fatto è che può accadere che il governo abbia la maggioranza alla Camera, ma non al Senato. Di qui inciuci, trasmigrazioni, compravendite. E’ successo nel 2006, nel 2008, nel 2013. I governi ne sono usciti paralizzati e costretti a negoziare e, talora, a comprare il voto di singoli senatori.
3) Sul neo-centralismo. Il testo di revisione corregge le anomalie del Nuovo Titolo V del 2001, che fu proposto e approvato dalla sola sinistra qualche giorno prima della fine della legislatura. Nella fretta convulsa di strappare illusoriamente Bossi all’alleanza con Berlusconi, hanno combinato il pasticcio di ben 74 aree di condivisione di competenze tra Stato e regioni. In questi 15 anni si sono sviluppati 1.300 contenziosi (dati forniti dalla Corte costituzionale) e circa 1.100 pronunce della Corte. Ricordo personalmente il conflitto che scoppiò tra Regione Lombardia e Stato, sui temi dell’istruzione professionale, essendo Ministro dell’Istruzione Fioroni.
Le grandi materie di interesse nazionale (energia, trasporti, turismo) tornano in capo al governo centrale, non potendo aspettare che sulla Tav decida un grappolo di Comuni, sulle trivelle decidano la Basilicata e la Puglia, che gli aeroporti nascano come funghi, salvo poi fallire e chiedere i soldi allo Stato ecc… Le Regioni sono diventate centri di spesa fuori controllo, mano si scende verso SUD. Le Regioni a statuto speciale non hanno più senso, salvo l’Alto Adige. Le altre sprecano miliardi. Che vengono ripianati dallo Stato centrale, cioè da tutti i cittadini.
Il Senato può diventare la Camera delle Regioni e degli enti locali. Totalmente sotto il controllo dell’esecutivo? Neanche per sogno. Il modello Bundesrat funziona così: i governi regionali designano propri rappresentanti nel Bundesrat. Nel testo di revisione italiano, invece, sono i Consigli, nel rispetto delle proporzioni maggioranze/opposizioni, a eleggere le proprie rappresentanze nel nuovo Senato.
3). Ci sarebbe un altro modo per organizzare il rapporto Stato- Regioni-Comuni? Sì, quello federalista. Sulla base del federalismo fiscale. Che però in Italia non vuole nessuno, né la sinistra né la destra. E neppure più la Lega. Lo vogliono Ronza, Cominelli e qualche loro amico. Troppo pochi, no?!
4). Il modello americano? Lì il Senato è la Camera degli Stati: ogni stato elegge due senatori, lo stesso numero per l’Alaska (750 mila abitanti) e per la California (38 milioni di abitanti). Lì il Senato è più potente della Camera, che rinnova ogni due anni un terzo dei deputati. La tradizione europea, invece, ha sempre fatto del Senato la Camera delle classi alte, non elettiva. Tanto che sia la sinistra comunista/socialista sia quella cattolica (Dossetti) erano monocameralisti. Berlinguer e Ingrao erano monocameralisti.
L’idea di una seconda Camera fu sostenuta da De Gasperi e, alla fine, votata anche dalle sinistre, per ragioni storico-politiche: ciascuno temeva il 18 aprile dell’altro. Il Senato, che durava 6 anni, con una legge elettorale diversa e con elettorato attivo e passivo più ristretto (ce ne siamo dimenticati?), che passava al vaglio le leggi della Camera, era semplicemente uno strumento per impedire l’avvento di un governo forte (comunista? democristiano?). Nella tradizione sturziana il Senato avrebbe potuto essere la Camera dei territori. Ma anche qui gli interessi contingenti del 1946-48 piegarono culture politiche e disegni costituzionali.
Così i democristiani, che erano regionalisti, diventarono centralisti, temendo che il ’48 avrebbe regalato loro tre/quattro repubbliche rosse piante nel bel mezzo del Paese. I comunisti, che erano sempre stati statalisti hegelo-marxiani-staliniani, puntarono sulle Regioni. Dopo il ’48, essendo stati sconfitti i comunisti, ma essendo rimasti forti nelle regioni rosse, le Regioni non furono più istituite. E quando accadde, erano condannate a diventare luogo di formazione di ceti politici pervasivi, pronti a spendere soldi a palate. Se una Regione perde tempo e soldi (es. il caso Bagnoli) è giusto che lo Stato centrale intervenga, con una clausola di supremazia. Così come sono oggi, le Regioni sono enti inutili e dannosi, perché costosissimi.
Ci sarebbe solo da osservare che occorre costruire una coerenza tra sistema istituzionale e sistema elettorale. Negli anni ’90 si è puntato tutto sulla riforma del sistema elettorale. Poi si capì che bisognava fare anche una riforma istituzionale coerente, anzi che questa era la priorità: un assetto di democrazia governante (Ruffilli!) da consolidare con un sistema elettorale adeguato al fine.
Ma è da tempo chiaro che se la riforma da fare è dare ai cittadini la scelta diretta del capo del governo – e questo può essere un efficace antidoto al populismo – allora il sistema dei partiti non la vuole. Perché essa – a partire dall’Italicum – fa saltare l’onnipotenza dei partiti. Così i partiti, che sono i responsabili dell’insorgenza populista – essendo stati incapaci di governare – oggi per un verso sono costretti a cedere a istanze di partecipazione-decisione diretta, per l’altro tentano disperatamente di conservarsi dei poteri.
I cosiddetti “pasticci” del testo di revisione costituzionale nascono tutti da lì. Solo un giovane, estraneo alla grandi culture politiche dell’arco costituzionale, poteva tentare l’impresa di abbattere il primato istituzionale dei partiti, grandi associazioni private che controllano Camera, Senato, Governo, Presidenza della repubblica, Corte Costituzionale, Anm, fino al bidello nelle scuole…Ecco perché io voterò Si.