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IL CASO DONUM VIATE

Consultori e aborto, Giovanni Paolo II aveva visto tutto

La benedizione impartita dalla Conferenza episcopale tedesca ai consultori cattolici che fanno capo all’organizzazione Donum vitae per rilasciare il certificato medico indispensabile per abortire. Una "battaglia" che Giovanni Paolo II aveva già affrontato profeticamente. 

Editoriali 04_02_2018

Ritorniamo sulla benedizione impartita dalla Conferenza episcopale tedesca ai consultori cattolici che fanno capo all’organizzazione Donum vitae. L’aspetto problematico dal punto di vista morale dell’attività di questi consultori sta nel fatto che l’impegno volto a dissuadere le donne dall’aborto si accompagna necessariamente al servizio di rilascio del certificato medico indispensabile per abortire laddove il colloquio dissuasivo non fosse andato a buon fine.

Spostiamo le lancette dell’orologio e andiamo negli anni Novanta. A quel tempo molti consultori cattolici tedeschi si erano iscritti nei registri ufficiali al fine di poter incontrare le donne che volevano abortire. Come accennato l’intento meritorio perseguito dagli operatori cattolici era la dissuasione dalle pratiche abortive, ma se il fine non fosse stato raggiunto gli operatori erano obbligati – a norma della Legge tedesca sulla gravidanza e la famiglia del 21 agosto 1995 – a firmare il certificato che permetteva alle madri di abortire il proprio figlio, quindi a validare la legittimazione a ricorrere all’aborto. Perciò si aveva un atto di valore giuridico (la consulenza) – atto astrattamente neutro dal punto di vista morale – congiunto necessariamente ad un secondo atto eventuale: il rilascio di un certificato per abortire. Chi sceglieva il primo atto, si esponeva all’alto rischio di trovarsi nelle condizioni di essere giuridicamente costretto a compiere un’azione malvagia.

Su altro fronte i componenti dei consultori cattolici temevano che la loro decisione di non offrire questo servizio lasciasse campo aperto solo ai consultori pro-aborto: sostanzialmente si sarebbe trattato, nelle loro interpretazione, di un’omissione colpevole. Il problema morale stava nell’individuare correttamente il significato etico della consulenza connessa eventualmente al rilascio del certificato abortivo. Il moralista cattolico Germain Grisez sostenne allora che il rilascio del certificato rivestisse due significati opposti: per la donna incinta era uno strumento per accedere all’aborto, per l’operatore pro-life che lavorava nel consultorio un’occasione per stornare la donna da propositi abortivi (Cfr. G.G. GRISEZ, The Way of the Lord Jesus – Difficult Moral Question, Franciscan press, Quincy (ILL), 1997, vol. III, pp. 380-384). Essendo differenti le intenzioni, diversi dovrebbero essere i giudizi morali, sosteneva in buona sostanza Grisez.

L’interpretazione di Grisez è da rigettare. Posto che la donna che vuole abortire compie un’azione malvagia, passiamo a valutare le condotte del personale del consultorio. Il soggetto che opera nel consultorio, come abbiamo notato, si vede coinvolto in due atti strettamente congiunti tra loro: l’azione dissuasiva – atto lecito – e la firma del certificato – atto illecito – nel caso in cui la prima azione non fosse andata a buon fine. La firma di tale certificato non può rivestirsi dell’intenzione lecita che mira a dissuadere la donna dall’abortire, ma per sua natura è strumento esclusivamente orientato a permettere la pratica abortiva, è strumento legittimante l’aborto. E dunque la circostanza per la quale un atto buono è necessariamente congiunto con uno malvagio obbliga ad astenersi dall’offrire questo tipo di servizio. Si tratta di un caso in cui le circostanze (la connessione di due atti di contenuto morale divergente) aiutano a specificare moralmente l’oggetto dell’atto.

Relativamente alla cronaca degli avvenimenti intorno a questa vicenda, rammentiamo che nel 1992 l’allora Presidente della Conferenza Episcopale Karl Lehman così si era espresso sul caso: «I consultori ecclesiastici non possono lasciarsi avvinghiare in un processo che rende il rilascio di un attestato medico un presupposto essenziale per l'uccisione depenalizzata di un non nato». Giovanni Paolo II intervenne per ben tre volte sulla questione – il 21 settembre del 1995, l’11 gennaio del 1998 e il 3 giugno del 1999 – scrivendo altrettante lettere all’episcopato tedesco. Il Papa espressamente vietò ai consultori il rilascio del certificato abortivo. Infatti nella missiva del settembre del ’95 così il Pontefice si espresse in merito al certificato rilasciato dai consultori: "Esso [il certificato N.d.A.] attesta che ha avuto luogo una consulenza, ma è allo stesso tempo un documento necessario per l'aborto depenalizzato nelle prime 12 settimane della gravidanza".

Nel gennaio del ’98 il Papa specificò ancor meglio il peso morale di questo certificato che combina necessariamente, seppur non in modo sufficiente, e indissolubilmente effetti positivi e negativi: “Il certificato attesta la consulenza nel senso della difesa della vita, ma rimane sempre la condizione necessaria per l'esecuzione depenalizzata dell'aborto, anche se certamente non è la causa decisiva che lo provoca”. Da qui la conclusione presente nella stessa lettera indirizzata ai vescovi tedeschi: “Perciò vorrei invitarvi con insistenza, cari Fratelli, a fare sì che un certificato di tale natura non venga più rilasciato nei consultori ecclesiali o dipendenti dalla Chiesa”. A seguito dell’invito del Pontefice, la Conferenza Episcopale Tedesca produsse un documento che offrì alla valutazione di Giovanni Paolo II in cui si articolavano molteplici soluzioni al caso in oggetto.

Il Pontefice, nella risposta all’episcopato del giugno del ’99, specificò che l’unico certificato valido sotto il profilo morale sarebbe stato quello che prevedeva in modo vincolante un uso orientato solo a fini buoni: “Affinché la qualità giuridica e morale di questo documento perda ogni ambiguità, Vi chiedo di chiarire nel testo stesso che il certificato, che attesta la consulenza ecclesiastica e dà diritto agli aiuti promessi, non può essere utilizzato per l'esecuzione depenalizzata di aborti a norma del codice penale § 218a. Questo deve avere come conseguenza che nella certificazione scritta, che viene rilasciata alle donne nel quadro del ‘piano di consulenza e di aiuto’, in linea con la variante 1 venga menzionato solo lo scopo della consulenza e degli aiuti ed alla fine della frase venga aggiunto: ‘Questo certificato non può essere utilizzato per l'esecuzione depenalizzata di aborti’”.

Dal punto di vista giuridico, ahinoi, tale specificazione doveva considerarsi tamquam non esset, ossia come se non fosse posta, perché poco rilevava la volontà soggettiva, espressa in tale clausola, la quale considerava il certificato strumento inidoneo per lucrare finalità abortive, rilevando invece unicamente la volontà legislativa che qualifica il certificato come strumento idoneo per legittimare l’aborto. Rileva dunque il reale significato oggettivo attribuito dalla legge, al di là delle intenzioni soggettive degli operatori dei consultori che non possono mutare la natura giuridica determinata dal legislatore. Infine anche la Congregazione per la Dottrina della Fede si trovò a precisare nel settembre del ‘99: «Se tale certificato dovesse ancora servire per una interruzione di gravidanza, sarebbe allora legittimo il rimprovero che viene sollevato da molti nei confronti della Chiesa, vale a dire che il suo messaggio è teorico e senza conseguenze concrete».

I principi morali indicati da Giovanni Paolo II, banale a dirsi, valgono ancor oggi.