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GOVERNO

Conflitto d'interessi, arma a doppio taglio

Come un nuovo mostro di Frankenstein sfuggito al controllo del suo creatore ora il conflitto di interessi sta mettendo in difficoltà un governo. Come fattispecie giuridica esiste da molto tempo, ma è solo dalla discesa in campo di Berlusconi, che viene usato come arma politica. Proprio perché manca una legislazione chiara in merito.

Editoriali 19_12_2015
Maria Elena Boschi

Come un nuovo mostro di Frankenstein sfuggito al controllo del suo creatore ora  il conflitto di interessi sta mettendo in difficoltà un governo che è comunque un erede, seppur anomalo, delle forze politico-giudiziarie cui se ne deve la comparsa sulla scena politica del nostro Paese.

Se infatti il conflitto di interessi è una fattispecie giuridica che esiste da tempo immemorabile, in quanto arma politica nasce invece con Berlusconi, o meglio contro Berlusconi.  C’erano tempi in cui, tanto per fare un esempio, Susanna Agnelli poteva da sottosegretario agli Esteri recarsi in visita ufficiale in Argentina a inaugurare stabilimenti della Fiat senza che nessuno ci trovasse niente da ridire.  E, anche a parte questo festoso particolare, poteva essere membro del governo mentre la sua azienda di famiglia riceveva aiuti statali a ogni piè sospinto. Non era poi di certo il solo caso. Da Berlusconi in avanti invece il conflitto di interessi è giunto prepotentemente alla ribalta, ma come arma politica più che come  reato giuridicamente definito. Non a caso anzi, quando trovandosi al governo con una solida maggioranza avrebbe potuto far passare una legge specifica al riguardo, lo stesso partito che l’aveva impugnato ha invece preferito lasciar perdere.

Tanti e tali sono oggi i legami fra iniziativa privata e istituzioni pubbliche che  un’estensione del concetto di conflitto di interessi vasta quanto basta per colpire Berlusconi (che non aveva più alcuna carica nelle aziende di proprietà sua e dei suoi familiari) avrebbe finito per mettere fuori gioco anche il grosso del ceto politico, a partire da buona parte  della dirigenza delle forze di sinistra. Perciò i grandi manovratori dell’accusa di conflitto di interessi hanno preferito che restasse qualcosa di mal definito in modo che fosse poi possibile farne uso a misura delle esigenze del momento. Questo spiega perché, diremo procedendo ancora per esempi, un orologio seppur di lusso donato al figlio del ministro Maurizio Lupi è bastato a costringerlo alle dimissioni “spontanee” dal suo incarico,  mentre invece otto mesi di permanenza di Pierluigi Boschi nella carica  di vicepresidente della Banca Popolare dell’Etruria non hanno indotto Renzi a chiedere un analogo fatidico passo indietro alla di lui figlia. A noi sembra che né l’uno meritasse né l’altra meriti l’uscita dal governo  per motivi del genere; ma allora perché lui sì e lei no? 

Sarebbe più serio, anche sullo spunto di questi episodi, che la classe politica trovasse il coraggio morale, al di là di ogni convenienza immediata, di giungere a una precisa definizione ex lege del “conflitto di interessi”. E lo stesso dicasi con riguardo a confusi e minacciosi fantasmi come il “concorso esterno in associazione mafiosa”, come i “teoremi” e come altre invenzioni di accusatori disinvolti che in effetti non esistono nel codice.  Che cosa è mai il “concorso esterno” se non un buon modo per accusare qualcuno senza bisogno di raccogliere prove consistenti? Se c’è, il “concorso” è tale senza che ci sia bisogno di distinguere fra il suo essere esterno o interno; e se non c’è non c’è, e basta. Il proverbiale uomo della strada si preoccupa poco di queste degenerazioni pensando che non lo riguardino; o che coloro i quali ne fanno le spese siano comunque gente poco raccomandabile. Farebbe invece bene a preoccuparsene e molto: degenerazioni del diritto, della vita pubblica e della prassi giudiziaria come queste provocano a lungo andare restringimenti degli spazi di libertà di cui finiscono poi per fare le spese tutti quanti, “non addetti ai lavori” compresi.