Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
San Guido Maria Conforti a cura di Ermes Dovico
LINEE GUIDA

Con la scusa del virus, si consiglia l'eutanasia

Abbandonare gli anziani, soprattutto se già malati, in favore dei più giovani, anche senza la mancanza di posti letto. È quanto raccomanda la Società di Anestesia e Rianimazione (SIAARTI) per regolare l'accesso alla terapia intensiva nell'attuale emergenza da Covid-19, in un documento che sta creando polemiche.

Attualità 09_03_2020

La SIAARTI, la Società Scientifica di Anestesia Analgesia Rianimazione e Terapia Intensiva, ha emanato delle Raccomandazioni di etica clinica dirette agli operatori riguardo l'ammissione di pazienti alla terapia intensiva, legata all’emergenza creata dal Covid-19. L'indicazione, molto esplicita, è di non ammettere gli anziani colpiti dal virus, soprattutto se portatori di altre patologie. Un documento che merita una analisi approfondita.

1. La prima domanda che sorge di fronte a questo documento, redatto da una società scientifica, è la seguente: coloro che non sono medici hanno diritto di valutarlo e con quali criteri? In effetti, molti sono i riferimenti specialistici che non sono comprensibili ai non tecnici e che, comunque, anche se fossero compresi, non potrebbero essere oggetto di valutazione da parte loro: viene, quindi, il dubbio che queste Raccomandazioni riguardino la pratica clinica, siano Linee Guida che possono essere valutate esclusivamente in quell’ambito.

Ma è la stessa sintesi del documento a dimostrare il contrario. Leggiamo: “È uno scenario in cui potrebbero essere necessari criteri di accesso alle cure intensive (e di dimissione) non soltanto strettamente di appropriatezza clinica e di proporzionalità delle cure, ma ispirati anche a un criterio il più possibile condiviso di giustizia distributiva e di appropriata allocazione di risorse sanitarie limitate”.

Quindi, a due criteri strettamente clinici – il criterio di appropriatezza clinica e il criterio di proporzionalità delle cure – ne vengono affiancati, anzi: contrapposti – altri due, di natura differente: il criterio di “giustizia distributiva” e quello di “appropriata allocazione di risorse sanitarie limitate”. In un passaggio successivo, infatti, si fa riferimento al giudizio di “non appropriatezza” all’accesso alle cure intensive “basato unicamente su criteri di giustizia distributiva”: il criterio clinico viene cancellato da uno di diversa natura.

Questi due nuovi criteri non riguardano affatto la pratica clinica, ma, piuttosto, i valori cui si ispira la comunità (la giustizia distributiva) e l’organizzazione del servizio sanitario (l’appropriata allocazione delle risorse).

Sono quindi i medici che – allo scopo “di sollevare i clinici da una parte della responsabilità nelle scelte” – utilizzano criteri non clinici; e lo fanno espressamente per legittimare decisioni che porteranno alla morte del paziente per mancata erogazione delle migliori terapie possibili disponibili o per interruzione delle migliori terapie in atto.

Ma se i medici pretendono di legittimare decisioni di questa portata utilizzando criteri non clinici, la collettività – di cui fanno parte, fra l’altro, anche i soggetti che rischiano di vedersi rifiutate o interrotte le migliori terapie – ha il diritto e il dovere di intervenire su tali criteri e, se del caso, censurarli.

2. Andiamo alla sostanza delle Raccomandazioni.
Il quadro che viene ipotizzato è il seguente: in un reparto di Terapia Intensiva vi sono dei letti liberi; giunge una persona anziana affetta dal Covid 19 in una condizione che richiede un intervento di Terapia Intensiva (nel senso che tale intervento ha una probabilità di successo, potendo ragionevolmente portare il paziente alla guarigione), ma il responsabile rifiuta di procedervi perché potrebbero giungere pazienti più giovani con la stessa necessità; quindi il paziente dovrebbe essere indirizzato a “cure inferiori” la cui efficacia non è specificata.

Attenzione: il caso non è quello del contemporaneo arrivo nel reparto di due pazienti, entrambi necessitanti un intervento di Terapia intensiva, con un solo letto disponibile; qui si tratta di tenere liberi un certo numero di letti per poter curare “gli eventuali pazienti successivi”.

3. In questo scenario deve essere compresa la frase “non si tratta di compiere scelte meramente di valore, ma di riservare risorse che potrebbero essere scarsissime a chi ha in primis più probabilità di sopravvivenza e secondariamente a chi può avere più anni di vita salvata, in un’ottica di massimizzazione dei benefici per il maggior numero di persone”. Questa frase giunge subito dopo quella – secca, senza appello – secondo cui “Può rendersi necessario porre un limite di età all'ingresso in Terapia Intensiva”.

Gli estensori delle raccomandazioni sembrano non rendersi conto che il criterio che propongono è di carattere generale: è, appunto, una scelta di valore, nel senso di attribuire minore valore alle terapie sugli anziani in una situazione di limitazione delle risorse.
Il documento contiene, non a caso, una excusatio non petita: “Un eventuale giudizio di inappropriatezza all’accesso a cure intensive basato unicamente su criteri di giustizia distributiva (squilibrio estremo tra richiesta e disponibilità) trova giustificazione nella straordinarietà della situazione”.

Al contrario, è evidente che, in qualunque situazione in cui le risorse sanitarie sono limitate – situazione che spesso ricorre e che si intravede per un prossimo futuro, proprio in ragione del progressivo invecchiamento della popolazione – il criterio che dovrebbe essere seguito è lo stesso: se i macchinari per la dialisi fossero insufficienti, se ne lascerà qualcuno libero per il caso in cui si presentasse un paziente giovane che soffre di insufficienza renale? E nei reparti di chirurgia di urgenza, si deciderà di non operare un anziano che potrebbe essere in questo modo salvato per il caso in cui, durante la notte, giunga un giovane ferito a seguito di incidente stradale?

4. La scelta di valore viene precisata in un passaggio successivo: “La presenza di comorbidità e lo status funzionale devono essere attentamente valutati, in aggiunta all'età anagrafica. È ipotizzabile che un decorso relativamente breve in persone sane diventi potenzialmente più lungo e quindi più resource consuming sul servizio sanitario nel caso di pazienti anziani, fragili o con comorbidità severa”.
In sostanza: attenzione a sottoporre gli anziani già “acciaccati” o che presentano altre malattie a Terapia Intensiva; si rischia di tenere quella postazione occupata per troppo tempo, spendendo tropo denaro!

Ancora una volta, bisogna precisare: il documento non sta facendo riferimento a soggetti per i quali la Terapia Intensiva è inutile, perché la loro morte è prevista e inevitabile a breve termine; sta trattando il caso di pazienti, sì, anziani e malati, ma che potrebbero essere salvati con un appropriato trattamento di terapia intensiva e che, invece, si propone di non sottoporre alla migliore terapia disponibile.

5. Coerentemente le Raccomandazioni, così come propongono di non sottoporre a terapia intensiva anziani pur nella disponibilità di posti letto, indicano come necessaria la cessazione della terapia intensiva in corso in casi in cui la stessa potrebbe ancora salvare la vita del paziente.

Il documento, infatti, nel raccomandare una quotidiana rivalutazione dell’appropriatezza delle cure, afferma: “Nel caso si ritenga che un paziente, ricoverato magari con criteri borderline, non risponda a trattamento iniziale prolungato oppure si complichi in modo severo, una decisione di “desistenza terapeutica” e di rimodulazione delle cure da intensive a palliative - in uno scenario di afflusso eccezionalmente elevato di pazienti - non deve essere posticipata”.

Si tratta di una riscrittura del concetto di accanimento terapeutico. In effetti, è evidente che questa raccomandazione non sarebbe necessaria nel caso in cui il paziente sottoposto a terapia intensiva fosse in fase terminale: la terapia intensiva potrebbe rivelarsi, in questo caso, inutile e sproporzionata e, quindi, sarebbe giustificata – se non doverosa – la sua sospensione.

Il caso contemplato è differente: si propone la desistenza terapeutica quando la terapia intensiva potrebbe essere ancora efficace, pur in presenza di complicanze o di mancata risposta al trattamento iniziale; se le cure devono diventare “da intensive a palliative” significa che il medico è invitato a far morire il paziente interrompendo una terapia che potrebbe essere efficace; anzi: l’unica efficace.

Anche in questo caso, la decisione dovrebbe essere adottata prescindendo dalla stretta necessità di sottoporre un altro paziente a terapia intensiva: ciò che conta è la liberazione di posti letti al fine di utilizzarli per eventuali altri pazienti.

6. In definitiva: la “massimizzazione dei benefici per il maggior numero delle persone” – l’ottica nella quale il documento si pone – significa, in pillole, contare il numero degli anni che si potrebbero garantire alla collettività dei pazienti che potrebbero avere necessità di terapia intensiva. Salvare la vita (o, quanto meno: tentare di salvarla, con buone probabilità di successo) a tre anziani con una aspettativa di vita di cinque anni ciascuno potrebbe non valere la pena nell’ipotesi (possibile, ma non certa) in cui si presentasse un cinquantenne bisognoso di terapia.
Ognuno faccia le sue valutazioni in ordine al criterio proposto nel documento.

7. Dal punto strettamente giuridico, ci si può chiedere in che modo il medico che agisse nel modo proposto nelle Raccomandazioni – non sottoponesse a terapia intensiva, pur disponibile, un paziente perché anziano e “fragile” ovvero interrompesse nei suoi confronti la terapia intensiva in atto – potrebbe evitare di essere imputato per il delitto di omicidio volontario nel caso di morte del paziente attribuibile alla patologia che sarebbe stata curata con la terapia intensiva negata o interrotta.

Sappiamo bene che “non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo” (art. 40 codice penale); nel caso di ricovero in un ospedale di un paziente bisognoso di terapie salvavita che sono disponibili, non sussiste forse l’obbligo per i medici di prestarle? Le Raccomandazioni di una società scientifica sono in grado di far cadere questo obbligo?

Il medico non potrebbe certo invocare lo stato di necessità (art. 54 cod. pen.): egli, infatti, non sarebbe stato affatto “costretto” al rifiuto di terapie salvavita “dalla necessità di salvare altri dal pericolo di un danno grave alla persona”, perché questo pericolo deve essere “attuale”, non soltanto potenziale ed ipotetico.
Coloro che hanno stilato le Raccomandazioni dimostrano, quindi, una palese irresponsabilità nei confronti dei loro colleghi; atteggiamento da cui, peraltro, traspare la convinzione che i medici possono fare dei loro pazienti ciò che ritengono giusto e vogliono.

8. Ecco un elemento paradossale delle Raccomandazioni: ciò che viene proposto prescinde dalla volontà del paziente e dovrebbe essere deciso dal medico.

Certo: vengono valorizzate le Disposizioni anticipate di Trattamento (se il soggetto ha già scritto che non vuole essere sottoposto a terapia intensiva, il problema è risolto), così come la pianificazione condivisa delle cure nel caso di malati cronici per i quali la sottoposizione a terapia intensiva è prevedibile come sviluppo della patologia; viene ancor sottolineata l’importanza di annotare nella cartella clinica l’istruzione “do not intubate”; ma la sostanza è diversa.

Infatti, “i criteri di accesso alla Terapia Intensiva andrebbero discussi e definiti per ogni paziente in modo il più possibile anticipato, creando idealmente per tempo una lista di pazienti che saranno ritenuti meritevoli di Terapia Intensiva nel momento in cui avvenisse il deterioramento clinico, sempre che le disponibilità in quel momento lo consentano”.
Notate: il paziente viene invitato a “discutere” della possibile sottoposizione a terapia intensiva, ma saranno i medici a valutare quali sono i pazienti “meritevoli” di tale trattamento, alla luce delle “disponibilità del momento”.

Quali saranno i criteri cui dovranno attenersi i medici lo abbiamo già visto: il paziente “anziano e fragile” potrà avere discusso a lungo, potrà avere acconsentito alla terapia intensiva o addirittura implorato i medici di sottoporlo alla stessa; ma, al momento in cui la stessa risulterà necessaria, si dovrà verificare se potrebbe giungere in reparto un paziente più giovane e se quindi vale davvero la pena di prolungare la vita al paziente anziano.
Torna il “medico paternalista”, quello che decide da solo? Sembra proprio di si!

9. Sia chiaro: nessuno stupore per Raccomandazioni di questo genere.
Dovremmo aver compreso, ormai, che l’enfatizzazione del consenso informato (“Nessuno può decidere per noi!”) e l’esaltazione dell’autodeterminazione del paziente, che è giunta a legittimare anche l’aiuto al suicidio, sono “specchietti per le allodole” per nascondere la realtà opposta: l’eutanasia non consensuale delle persone che appartengono alle categorie dei soggetti “inutili”, malati, anziani, disabili.

La legge 219 del 2017 sul consenso informato, non a caso, affida espressamente il rifiuto delle terapie salvavita sui minori e incapaci ai loro rappresentanti legali e attribuisce alle DAT un valore vincolante per il futuro senza in alcun modo garantire che le stesse corrispondano effettivamente ad una volontà libera e informata di chi le ha scritte.

Chi ha scritto queste Raccomandazioni ha il merito di avere posto la questione esplicitamente: gli anziani e le persone fragili “valgono” meno dei più giovani e più sani, tanto che, talvolta, non “vale la pena” di curarli efficacemente e salvare loro la vita, perché devono prevalere i criteri di giustizia distributiva e di corretta utilizzazione delle risorse; risorse che – si sa – sono limitate e non possono certo essere indirizzate a curare questi anziani “testardi” che non hanno ancora capito quando è il momento di farsi da parte …