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RISPOSTA AL CARDINALE/1

Comunione, ecco dove Coccopalmerio travisa i testi

Il Cardinale Coccopalmerio ha risposto alla critica che avevamo mosso alla sua intervista nella quale apriva alla Comunione ai protestanti, oltre i limiti definiti dal Diritto Canonico. Ma travisa i testi. Come spiegava infatti Benedetto XVI l’amministrazione dell’Eucaristia non può dipendere solo dal desiderio della persona che la richiede. Ecco la prima parte delle nostre controdeduzioni. 

Ecclesia 17_09_2018

Il Cardinale Coccopalmerio ha risposto (vedi qui) alla critica che avevamo mosso alla sua intervista ad Andrea Tornielli, nella quale apriva alla Comunione ai protestanti, oltre i limiti definiti dal Diritto Canonico.

Prima di entrare negli aspetti più importanti della replica del cardinale, vorrei ricordare molto brevemente perché ho definito l’interpretazione di Coccopalmerio un “saccheggio” dei testi magisteriali, dal momento che Sua Eminenza afferma che “non capisco come avrei saccheggiato i predetti testi del Magistero solo citando alla lettera il testo di Unitatis Redintegratio, n. 8, 4 e avendo solo ridetto ciò che il testo esprime”.

Rimando i lettori ed il Cardinale al testo precedente, ma per comodità di entrambi, ricordo che non ho mai affermato che Coccopalmerio abbia saccheggiato il testo di UR, come lui lamenta, ma gli altri testi indicati, allorché aggiungeva parole o le modificava, come nel caso di congiunzioni congiuntive che divenivano improvvisamente avversative. Il testo di UR è invece stato citato correttamente, ma interpretato scorrettamente ed in modo altrettanto scorretto è stato riproposto nella sua replica, come cercherò di dimostrare.

In effetti, la risposta di Sua Eminenza non fa che confermare quanto si era visto nella mia critica ed in particolare: un’interpretazione del testo di UR 8, 4 fuorviante, perché avulsa dagli altri interventi magisteriali e contraria ad un principio di fede fondamentale; e l’errata affermazione che la fede richiesta nel sacramento dell’Eucaristia, per quanti la domandano, non debba essere quella integrale della Chiesa, inclusa la transustanziazione.

I casi gravi ed urgenti del cardinale
Anzitutto, per avere chiaro l’intento di Coccopalmerio, vediamo dove “arriva” la sua argomentazione, riportando gli esempi che lui stesso propone: “Una mamma, non cattolica, partecipa alla celebrazione della Messa in cui il figlio cattolico riceverà la prima Comunione e per non restare divisa, in questo eccezionale momento, dal suo bambino, chiede di ricevere la Comunione con lui”. Casi analoghi quello di un figlio, non cattolico, che partecipa alla Messa esequiale del padre o quello, già proposto nel precedente intervento, della coppia mista che partecipa alla Messa cattolica. A questi viene aggiunto il caso di “un cristiano non cattolico [che] deve sottoporsi a una operazione chirurgica di notevole impegno (senza tuttavia pericolo di morte) e deve sottoporvisi in breve tempo”.

Unitatis Redintegratio e Coccoplamerio: in mezzo il nulla
Il Cardinale afferma di trarre queste conseguenze dal testo di UR 8, che considera il punto di partenza di tutta la sua argomentazione. Vediamo perché la sua interpretazione del testo non è corretta. Il paragrafo in questione afferma che la “«communicatio» è regolata soprattutto da due principi: esprimere l'unità della Chiesa; far partecipare ai mezzi della grazia. Essa è, per lo più, impedita dal punto di vista dell'espressione dell'unità; la necessità di partecipare la grazia talvolta la raccomanda”.

Prima annotazione: il testo parla genericamente di “communicatio”, la quale include molti aspetti, non solamente la Comunione sacramentale (ad es., momenti di preghiera in comune, concelebrazioni). L’enunciato di UR è perciò molto generico, tant’è vero che già in sede conciliare alcuni Padri chiesero che venissero precisamente indicati i casi in cui la “communicatio in sacris” potesse essere considerata legittima. Il Segretariato rispose rinviando le precisazioni ad un futuro Direttorio, pubblicato nel 1967. E’ lo stesso testo di UR 8 ad aggiungere che “circa il modo concreto di agire […] decida prudentemente l'autorità episcopale del luogo, a meno che non sia altrimenti stabilito dalla conferenza episcopale a norma dei propri statuti, o dalla santa Sede”.

Nel nostro articolo precedente, facevamo notare che proprio i testi successivi della Santa Sede non sono stati presi in considerazione nell’interpretazione di Coccopalmerio, oppure, come nel caso del par. 844 § 4 del CIC, sono stati distorti. Ed il Cardinale mantiene la propria condotta di sorvolare sui pronunciamenti presenti in Ut unum sint, 46, Ecclesia de Eucharistia, 44-46, Redemptionis Sacramentum, 85. Rimangono lui e UR: in mezzo il nulla.

L’ennesimo travisamento dei testi
Pur essendo generico, UR, 8 mette comunque in rilievo il principio dell’unità della Chiesa. Ora questo principio è quello fondamentale, in quanto di diritto divino, e non meramente ecclesiastico. E’ lo stesso Vaticano II a specificarlo nel Decreto Orientalium Ecclesiarum, che al n. 26 così recita: “La «communicatio in sacris» che pregiudica l'unità della Chiesa o include formale adesione all'errore o pericolo di errare nella fede, di scandalo e di indifferentismo, è proibita dalla legge divina”. E quello della gratia procuranda dev’essere coordinato con questo. E’ per questo che il successivo Codice di Diritto Canonico dà come principio generale (dove generale non significa generico, o che possa essere contraddetto dal particolare) che “i ministri cattolici amministrano lecitamente i sacramenti ai soli fedeli cattolici, i quali li ricevono lecitamente dai soli ministri cattolici”.

Facciamo notare che il principio di “unità della Chiesa” non è la stessa cosa del “pericolo di indifferentismo”, come il testo di OE, 26 specifica, distinguendoli mediante congiunzioni disgiuntive. Invece Coccopalmerio perde di vista questa realtà ed arriva ad affermare che UR, 8 stabilisce due principi: “evitare il pericolo di indifferentismo o di scandalo; conferire la grazia santificante mediante l’amministrazione dei sacramenti”, mentre invece UR non parla di pericolo di indifferentismo, ma di principio di unità della Chiesa (che tra poco spiegheremo), il quale include l’obbligo di evitare l’indifferentismo e lo scandalo, ma non si esaurisce in esso.

Una volta equiparata l’unità della Chiesa con il pericolo di indifferentismo, il cardinale può tranquillamente affermare che “nei casi in cui non è possibile evitare il pericolo di indifferentismo e di scandalo, non è possibile amministrare i sacramenti; nei casi in cui è possibile evitare il pericolo di indifferentismo e di scandalo, è possibile, anzi raccomandato, amministrare i sacramenti”. E ripete lo stesso principio nel punto 6d, come conseguenza del principio del dovere di procurare la grazia sacramentale ai fedeli non cattolici. Cosa sta facendo qui Coccopalmerio? Evidentemente sta travisando un testo e finisce col negare nel particolare, ciò che è affermato come principio generale.

Il principio di unità della Chiesa
Il principio generale di unità della Chiesa, che è legge divina, e quindi in nessun modo abrogabile, afferma che esiste un legame costitutivo tra l’avere la stessa fede, partecipare agli stessi sacramenti e appartenere alla stessa Chiesa, gerarchicamente ordinata. Non è possibile selezionare solo uno o due di questi aspetti, o parte di essi. Giovanni Paolo, in Ecclesia de Eucharistia, 44, insegnava che “l'unità della Chiesa, che l'Eucaristia realizza mediante il sacrificio e la comunione al corpo e al sangue del Signore, ha l'inderogabile esigenza della completa comunione nei vincoli della professione di fede, dei Sacramenti e del governo ecclesiastico”. Benedetto XVI forniva una precisazione fondamentale per far capire che l’amministrazione dell’Eucaristia non può dipendere solo dal desiderio della persona che la richiede: “L'Eucaristia, infatti, non manifesta solo la nostra personale comunione con Gesù Cristo, ma implica anche la piena communio con la Chiesa. Questo è, pertanto, il motivo per cui con dolore, ma non senza speranza, chiediamo ai cristiani non cattolici di comprendere e rispettare la nostra convinzione che si rifà alla Bibbia e alla Tradizione. Noi riteniamo che la Comunione eucaristica e la comunione ecclesiale si appartengano così intimamente da rendere generalmente impossibile accedere all'una senza godere dell'altra, da parte di cristiani non cattolici” (Sacramentum Caritatis, 56).

Allora, Coccopalmerio commette a questo livello un duplice errore: in primis, quello di perdere di vista il principio di unità della Chiesa, riducendolo al solo pericolo di scandalo e indifferentismo. Per questo per lui, una volta che non c’è questo pericolo, si può, anzi si deve dare la Comunione ad un protestante. A tirare le conseguenze di questa fallacia, di per sé si potrebbe arrivare ad ammettere la concessione del Sacramento “in sacristia” a qualsiasi protestante che la richieda. Invece, il principio di unità della Chiesa dev’essere sempre mantenuto, anche quando non vi è pericolo di indifferentismo.

In secondo luogo, Coccopalmerio ritiene che la legge ecclesiastica si muova nella linea di permettere eccezioni alla regola divina. Ma se fosse così, avremmo una rottura nell’insegnamento della Chiesa: non si può affermare che è di diritto divino il principio di non dare i sacramenti quando non si verifica nel contempo una comunione di fede e di appartenenza ecclesiale, e poi farlo in casi eccezionali. Le condizioni previste dal CIC 844, infatti, non devono essere considerate, propriamente parlando, come delle eccezioni alla regola, perché altrimenti si andrebbe a contraddire nel particolare ciò che si è affermato come legge divina generale; esse, invece, quando si verificano in una situazione particolare, permettono di poter affermare che quel caso singolare non è un’eccezione che contraddice la regola generale, ma soddisfa le condizioni della legge divina generale.

Coccopalmerio incappa nello stesso errore di chi sostiene che in certi casi, i divorziati risposati possono vivere more uxorio: c’è una regola generale che affermiamo, ma poi ammettiamo delle eccezioni; la stessa condizione di Familiaris Consortio (vivere in piena continenza) era già un’eccezione alla regola; a questa eccezione, ne aggiungiamo altre. Niente di più falso. La regola generale che proibisce atti coniugali al di fuori del matrimonio vale semper et pro semper, e la condizione insegnata da FC non è un’eccezione alla regola, ma indica che in quella specifica situazione non c’è contraddizione con la legge divina.

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