Come Renzi personalizza la grande riforma
Il premier trasforma il prossimo referendum confermativo della riforma costituzionale in un plebiscito personale: pro o contro il governo Renzi. Ma la posta in gioco è ben più importante. Si tratta infatti di approvare una riforma che introduce centralismo e statalismo a tutti i livelli.
“Se perdo il referendum costituzionale considererò fallita la mia esperienza politica”: con queste parole pronunciate nel corso della sua conferenza stampa di fine anno il premier Renzi ha trasformato il voto sul referendum confermativo della sua riforma costituzionale, che dovrebbe aver luogo circa a metà del prossimo ottobre, in un plebiscito a favore o contro di lui. Ovvero in qualcosa che non c’entra nulla con la posta in gioco.
La nostra Costituzione - che ad ogni buon conto non è affatto “la più bella del mondo” – è in effetti un arnese ormai obsoleto da capo a fondo; e non soltanto nel Titolo V che è l’oggetto della riforma Renzi-Boschi. Venne elaborata all’inizio della Guerra fredda, quando si era già consumata la rottura fra Stati Uniti e Unione Sovietica con la conseguente spartizione dell’Europa in due aree di influenza. Nel caso dell’Italia la linea di frontiera fra tali due aree di influenza passava all’interno di un Paese sconfitto che però, diversamente dalla Germania, i Paesi vincitori non avevano spartito in due Stati diversi. Questo privilegio venne pagato con un complesso gioco di equilibri interni del quale la nuova Costituzione repubblicana fu sia effetto che causa. Da tale punto di vista è un capolavoro, ma ogni giorno che passa diventa sempre più la testimonianza, sia pure esemplare, di un’epoca ormai passata. A chi la guardi senza riserve mentali può suscitare le emozioni e la meraviglia che suscita la “Amerigo Vespucci” in navigazione a vele spiegate. Un grande spettacolo che tuttavia non toglie nulla alla necessità di disporre di una marina militare all’altezza dei tempi.
Non siamo dunque di certo contrari all’idea di una riforma organica della Costituzione vigente. Si tratta poi di vedere come riformarla; e in tal senso, come più volte avemmo modo di scrivere, il nostro giudizio sulla riforma Renzi-Boschi è del tutto negativo. E’ una riforma all’insegna del centralismo e dello statalismo che in fin dei conti non farebbe altro che aggravare i problemi che pretende di risolvere. Non è però sul contenuto della riforma che desidero qui soffermarmi quanto sull’uso equivoco che sin dall’origine Renzi ne ha fatto. Del suo effettivo significato i cittadini sono stati disinformati sin dall’inizio. Tutta l’attenzione è stata deliberatamente concentrata su uno solo dei suoi elementi, la riforma del Senato, che è importante ma nient’affatto sostanziale. La sostanza della riforma è il riaccentramento nelle mani del governo di Roma dell’intero potere politico con la conseguente riduzione delle autonomie locali e delle regioni a organismi amministrativi posti peraltro sotto la tutela di nuovi super-prefetti.
In questo spirito, anche l’autonomia sociale viene penalizzata in tutta la misura del possibile. Si rilancia perciò con forza il monopolio statale della scuola riaffermando il preteso diritto di primogenitura dello Stato in campo scolastico, ovvero il suo presunto diritto, tendenzialmente tirannico, di essere il primo e se possibile l’unico educatore dei propri cittadini. Facendo leva con destrezza sull’attuale impopolarità del ceto politico, sul terreno preparato da una previa campagna di discredito del Senato Renzi ha fatto dei senatori i capri espiatori di ogni male della vita pubblica italiana. Così ha potuto passare senza approfondimento e senza dibattito anche tutto il resto della riforma, che ha nel suo insieme gli aspetti molto pericolosi di cui si diceva.
Per riaprire il dibattito e procedere a tutti gli approfondimenti che sono stati preclusi durante i passaggi della riforma alle Camere resta l’occasione del referendum confermativo. Con la sfida che ha lanciato durante la conferenza stampa di cui sopra Renzi sta però cercando di vanificare tale occasione trasformando la campagna referendaria, come dicevamo, in un plebiscito pro o contro di lui. Se l’operazione gli riesce, la sorte di una riforma, i cui effetti potrebbero durare anche per diversi decenni, verrebbe messa a servizio del desiderio di Renzi di restare al governo sino alla fine della legislatura, ossia fino al 2018.
Finché invece non si riesce a costruire un’alternativa decente al governo di Renzi sarebbe meglio per tutti non raccogliere la sua sfida, e quindi non fare del referendum confermativo del prossimo ottobre quel voto popolare di fiducia al suo governo che egli pretende sia. Per il bene comune è meglio che la sua sorte e quella della riforma vengano divise. Insomma che la riforma venga respinta, ma che lui per il momento resti al governo. Quel che manca, almeno fino ad oggi, sono una forza politica in grado di farsi carico di tale operazione e un leader capace di guidare con efficacia una campagna referendaria in tal senso in alternativa a quella di Renzi.