PRISMA
Come Gregorio Magno
Giovanni Paolo II ha riproposto l'annuncio cristiano al nuovo mondo globalizzato, provocando grandi cambiamenti nelle relazioni internazionali.
Prisma
02_05_2011
In sostanza, come Gregorio Magno ripropose l’annuncio cristiano alla nuova Europa seguita alla fine dell’Impero Romano e alla radicale trasformazione etnico-culturale provocata dalle invasioni barbariche, così Giovanni Paolo II l’ha riproposto al nuovo mondo globalizzato sorto dalla fine dell’età moderna nonchè dal tramonto dell’economia e quindi della società centrate sull’agricoltura, che duravano dall’età neo-litica, ossia da circa 10 mila anni. Al di là di ogni altro dettaglio questo è in sintesi il tempo nel quale stiamo vivendo, un’età di grande transizione: ossia un Medio Evo inevitabilmente confuso e turbolento che Giovanni Paolo II colse con preveggente acutezza come si vide sin dal suo discorso di insediamento, dal suo indimenticabile “Non abbiate paura”.
Tra tutti gli aspetti di questa colossale opera mi soffermo su ciò che mi riguarda qui specificamente, ovvero le relazioni internazionali. Prima di entrare nel merito è però opportuno sottolineare un elemento che fa della Chiesa cattolica un unicum anche in tale sfera: il suo essere cioè, grazie alla Santa Sede, non soltanto l’unica comunità di fede saldamente strutturata, unita attorno a un’autorità suprema (il Papa) e diffusa in tutto il pianeta, ma anche l’unica ad avere al proprio centro un soggetto di diritto internazionale, riconosciuto e accreditato presso la massima parte degli Stati del mondo e presso le Organizzazioni internazionali. Talvolta a ciò si accosta il Dalai Lama, ma si tratta in effetti di un caso molto diverso; quest’ultimo è a capo di una comunità di fede, quella buddista tibetana, che consiste di soltanto circa sei milioni di persone e, coincidendo con una comunità etnica, non ha perciò stesso alcuna proiezione internazionale.
L’opera di Giovanni Paolo II in sede internazionale ha potuto dunque fondarsi sulla specifica situazione di cui si diceva, ma ciò non toglie nulla alla sua grandezza. In sostanza egli affermò, e praticò in tutta la misura in cui gli fu possibile, che – diversamente dalla pretesa delle ideologie rivoluzionarie del secolo XX – la violenza, con buona pace di Trotskij, non è l’inevitabile “levatrice della storia”, ma che lo possono essere, in modo non soltanto molto meno cruento ma anche molto più efficace, le virtù cardinali della Fortezza, Prudenza, Giustizia e Temperanza. In questo senso merita di venire sempre più studiato il suo ruolo nel processo di smobilitazione del potere sovietico sia nell’Urss che nell’Europa Orientale. Un processo nel quale intervenne tanto con fermezza quanto con moderazione in modo che procedesse senza soste ma anche senza sobbalzi catastrofici.
Analogamente avrebbe voluto fare nel Levante, come bene si vide nel caso dell’Iraq. Purtroppo non gli riuscì, ma tutto quanto è avvenuto dopo non ha mai smesso di confermare quanto avesse ragione. Meno noto qui in Europa, ma non meno importante, fu l’impulso che diede alle Chiese dell’America Latina e dell’Africa per stimolarle a prendere le distanze dalle filosofie politiche cripto-marxiste derivanti dalla “teologia della liberazione” orientandole invece ad assumere un ruolo di positivo aiuto a transizione verso tutta la democrazia e tutto lo sviluppo possibili nelle varie situazioni date. Tutto ciò in forza di un’intelligenza politica nient’affatto a latere del suo ruolo di pontefice e della sua fede cristiana ma anzi come riflesso diretto di esse.
Quando verrà il tempo in cui si potranno aprire gli archivi della Santa Sede relativi al suo pontificato sono certo che non solo gli storici ma anche gli scienziati della politica avranno molto da attingere al riguardo.