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MALAGIUSTIZIA

Come distruggere la famiglia con l'accusa di pedofilia

Per sedici anni sono stati accusati di essere pedofili e satanisti, di aver celebrato macabri riti omicidi. Tutto falso: sono stati assolti. Ma 24 persone, padri, madri e sacerdoti, sono stati rovinati e sette sono morti. Come è stato possibile?

"Ebbene: chi paga?" di Carlo Giovanardi*

Editoriali 10_12_2014
Delfino e Lorena Covezzi

Per sedici anni sono stati “pedofili e satanisti” agli occhi del mondo intero. Finché la Cassazione, il 4 dicembre, non li ha assolti, per non aver commesso il fatto. Ma non tutti hanno potuto assistere alla loro liberazione dall’accusa più infamante che si possa concepire. Di ventiquattro persone finite nel tritacarne mediatico-giudiziario, ben sette sono morte, di crepacuore o per suicidio, non riuscendo a sostenere il peso di questa ingiustizia.

Come è stato possibile? Meglio fare un passo indietro, al 1997, nella provincia modenese, quando una bambina di otto anni, in cura per problemi psicologici e già affidata ai servizi sociali, inizia a raccontare di riti crudeli, commessi in un cimitero. Riti blasfemi, in cui “i grandi ci hanno fatto lanciare in aria dei bambini che poi ricadevano per terra e forse morivano”. La storia, man mano che viene raccontata, si ingigantisce. Questi riti sono guidati, dice la piccola spaventata, dal parroco Don Giorgio Govoni. Porta le vittime predestinate nel furgone della parrocchia, assieme ai loro genitori, fino al cimitero locale, dove avvengono riti orgiastici, abusi, violenze, profanazione di tombe, decapitazioni. I corpi vengono gettati nel fiume Panaro. Sarà vero? I cittadini di Massa Finalese giurano subito che: no, non è vero, il parroco è molto amato, tutti i genitori dei bambini di cui si parla sono bravissime persone, volontari, parrocchiani, una maestra d’asilo. Non ci sono bambini che mancano all’appello, non si trova alcun corpo nel fiume Panaro, che viene dragato e setacciato in lungo e in largo. Eppure la macchina giudiziaria è già partita…

Gli interrogatori sono un qualcosa di kafkiano. Ce ne parla in dettaglio la giornalista Lucia Bellaspiga su Avvenire “Oggi la Carta di Noto e il Protocollo di Venezia impediscono questo scempio e i periti vengono formati a raccogliere le testimonianze dei piccoli senza suggestionarli, filmando e registrando ogni colloquio. Nel caso della Bassa Modenese, invece, i video sono un’eccezione e dai pochi che restano si vede bene come si arrivò a don Giorgio Govoni: Piccolina, chi era quell’uomo? Un dottore? Risposta: sì. Ma poteva anche essere un sindaco? Sì. Anche un prete? Sì. Poteva chiamarsi Giorgio? Hai mai sentito questo nome? Ovvio che sì”. 

E nel dubbio… nel novembre del 1998 la polizia fa irruzione all’alba nella casa della famiglia Covezzi, dove abitano due dei “mostri”, Lorena (maestra nell’asilo parrocchiale) e suo marito Delfino (operaio). I loro quattro bambini vengono portati via. Nel dubbio, viene tolta loro la potestà: non rivedranno più i loro bambini. Don Giorgio Govoni, assolto, non fa a tempo ad assistere alla sua piena riabilitazione: nel 2000 muore nello studio del suo avvocato. Muore, in carcere, anche la mamma della piccola accusatrice, origine di tutto il caso. E, con loro, altre cinque persone. Sette morti, una vera strage. Venti bambini, in tutto, sono stati strappati dalle braccia dei loro genitori. 

Solo il 4 dicembre, una settimana fa, è arrivata l’assoluzione per Lorena e Delfino. Ora i loro figli, già adulti, si rifiutano di rivedere la madre. Solo lei, perché il padre è nel frattempo morto di crepacuore. Lorena vive in Francia, dove era espatriata assieme al suo quinto (ormai unico) figlio.

Ancora: come è possibile? L’Italia ci ha abituato a questi casi di malagiustizia, ormai. Ma c’è di più. Qui c’è il pregiudizio che entra in gioco. Perché il luogo comune vuole che tutti i preti, in fondo, siano un po’ pedofili. E soprattutto, come si legge nell’introduzione di tutti gli studi sulla violenza sui minori, “la maggior parte degli abusi avviene dentro le famiglie”. La prima comunità volontaria, cellula della società, è invariabilmente ispezionata da sociologi, psicologi, registi e giornalisti come il luogo più pericoloso in cui crescere.

Il responsabile dei servizi sociali di Mirandola, nel modenese, quando il caso era appena iniziato, spiegava con grande sicurezza ai suoi intervistatori: “Vede, qui da noi (in Italia, ndr) c’è ancora forte nella gente il senso di proprietà del figlio: il figlio è una proprietà e nessuno me lo può toccare (…) La nostra costituzione e la legislazione che è venuta avanti ha cambiato questa cultura, il bambino è un portatore di diritti e quindi va tutelato. La gente dice: ‘il figlio è mio e quindi decido io’, ma sbaglia”. Quanto pregiudizio c’è, in queste lapidarie sentenze?

Non solo questo pregiudizio permette di giudicare prima di sapere. Ma permette, viceversa, di assolvere anche quando si sa già molto. Questo caso di malagiustizia, dove ventiquattro innocenti sono finiti nel tritacarne giudiziario (e, ripetiamolo: sette ci hanno lasciato la pelle), stride con il caso opposto del Forteto, una comunità minori dove gli abusi sono stati documentati da testimonianze molto più attendibili. Eppure, in quella circostanza, la magistratura si è mossa con una prudenza incredibile. E i minori non sono stati prontamente sottratti alle cure dei loro presunti carnefici. Perché la cooperativa ha appoggi politici che dei povericristi come Don Giorgio Govoni e la famiglia Covelli non si sognavano neppure? Probabile, ma è una risposta troppo limitata. C’è dell’altro: il Forteto è una cooperativa, un ente collettivo che affianca lo Stato per allevare i figli lontano dalla famiglia. La sua è un’opera considerata molto meritevole, anche solo per questo, dunque per quel caso vige la ferrea regola della presunzione di innocenza (e per gli accusatori l’infamante epiteto di diffamatori). Perché tutti sono innocenti fino a prova contraria, ma se il reato è la pedofilia e i sospetti sono un parroco e un gruppo di famiglie cattoliche, allora il paradigma si inverte: sono loro che devono dimostrare di non essere colpevoli.

"Ebbene: chi paga?" di Carlo Giovanardi*