Cognome e coppie lesbo: caos etico-giuridico
Una donna lesbica chiede di dare il cognome della bimba, nata da utero in affitto, della compagna, poi lasciata. Il tribunale di Bari le dà ragione come se anche lei fosse un genitore e non una "madre intenzionale". Uno scompiglio giuridico di difficile soluzione. Ma l'adozione della madre genetica potrebbe essere l'unica soluzione.
Quando il diritto scompiglia l’ordine naturale poi trova grandi difficoltà nel tamponare gli effetti negativi di questo scompiglio. Ennesima storia di coppia gay. Due donne si “sposano” nel 2016 a New York e poi tramite maternità surrogata “hanno” una bambina che oggi ha quasi 5 anni. Una delle due donne aveva dato i propri ovociti, l’altra no.
Le due poi riescono a trascrivere l’atto di nascita formatosi negli States presso l’anagrafe di Bari: in esso entrambe compaiono come genitori. Questa trascrizione è illegittima perché contraria all’ordine pubblico. Infatti per il nostro ordinamento un bambino può avere come genitori solo un uomo e una donna, non due uomini o due donne.
La coppia poi scoppia e le due donne si separano. Allora i nonni della madre genetica chiedono che il cognome della compagna della figlia venga cancellato dai registri di stato civile, proprio perché non può vantare nessun legame genetico con la bambina. In tal modo la bambina sarebbe stata indicata come figlia della sola madre (genetica). Il Tribunale civile di Bari rigetta l’istanza con le seguenti motivazioni: «Deve essere tutelato l’interesse della minore, che deve poter fruire del diritto di essere mantenuta, istruita, educata ed assistita moralmente da entrambe le persone che considera di fatto suoi genitori e che hanno concorso alla sua nascita sulla scorta di un progetto genitoriale condiviso». Poi si aggiunge che «il consenso alla genitorialità e l'assunzione della conseguente responsabilità nella formazione di un nucleo familiare dimostra la volontà di tutelare l'interesse del minore alla propria identità affettiva, relazionale, sociale e a mantenere il legame genitoriale acquisito nei confronti di entrambi i genitori, eventualmente anche in contrasto con la verità biologica della procreazione».
E purtroppo è ormai assodato per la nostra giurisprudenza che la famiglia non è più solo quella che nasce dal matrimonio tra un uomo e una donna, ma anche quella che nasce da meri affetti, dal tempo passato insieme, da progetti di genitorialità condivisa tra persone dello stesso sesso. Insomma basta voler essere famiglia o genitori per poterlo diventare, in barba al vero interesse dei bambini che, per diritto naturale, esigono di avere un padre e una madre per poter crescere in modo sano.
I giudici poi spiegano che se la “famiglia” arcobaleno non c’è più a causa della separazione, il rapporto genitoriale con la minore invece può sopravvivere, proprio come nelle coppie etero che si separano. E così la «rottura della relazione sentimentale delle componenti della coppia genitoriale non assume rilievo – scrivono i giudici – , poiché non fa venir meno il valore del progetto di genitorialità condivisa. Ed invero, tale progetto, superate le iniziali situazioni di conflittualità che caratterizzano ogni separazione, dovrà essere comunque attuato, avendo la piccola diritto alla continuità del legame affettivo con entrambe le madri». Quindi il Tribunale, non volendo cancellare il nome della cosiddetta madre sociale o intenzionale, certifica, ancora una volta, che, anche sul profilo della filiazione, coniugi eterosessuali e coppie gay pari sono.
Più sopra abbiamo annotato che l’atto di nascita formatosi negli Usa sarebbe stato irricevibile qui da noi in Italia perché per il nostro ordinamento i genitori di un minore non possono che essere di sesso differente. Ma vi è anche un altro motivo per considerarlo irricevibile quell’atto di nascita: secondo la nostra normativa, madre è chi ha partorito o chi ha adottato. Ora nessuna delle due donne ha partorito o adottato quella bambina: per l’ordinamento italiano quella bambina non ha madre. La donna che ha fornito l’ovocita è madre genetica, ma non avendo partorito, per la nostra legge, non potrebbe fregiarsi del titolo di “genitore”. Dunque in punta di diritto né la madre intenzionale né quella genetica potrebbero figurare nell’atto di nascita registrato in Italia come genitori. Ciò significa, per inciso e per il colmo dei paradossi, che se la “madre” intenzionale avesse partorito la bambina, figlia genetica dell’altra donna, sarebbe stata lei la madre della piccola per la legge italiana e non la madre genetica.
Dunque la soluzione del Tribunale di Bari non è accettabile. E quindi quale via di uscita giuridica sarebbe stata eticamente valida? La soluzione spendibile sul piano giuridico e accettabile sul versante morale potrebbe essere quella che la madre genetica adotti la minore (un vero paradosso se ci pensiamo, dato che è lei la vera madre), usando la sezione della legge sulle adozioni dedicata ai casi particolari. Infatti, come asseriva San Giovanni Paolo II Papa, esiste un diritto nativo del figlio a crescere con i propri genitori naturali, posto che siano all’altezza del compito. Se il padre è irrintracciabile o, se pur rintracciabile, si rifiuta, come è certo, di riconoscere la figlia, allora, perlomeno, che la bambina cresca con la madre biologica. L’altra donna invece non dovrebbe vantare nessun diritto sulla bambina e, inoltre, bene che sia intervenuta la separazione, rompendo così il rapporto omosessuale tra queste due donne. Questo sul piano giurisprudenziale/morale.
Sul piano legislativo, poniamoci una domanda: il Parlamento dovrebbe varare una legge che permetta di considerare come genitore quella donna che, accedendo alla maternità surrogata nonostante sia vietata e pur non avendo partorito il bambino, ha fornito gli ovociti? La risposta crediamo che debba essere negativa. Infatti si incentiverebbe la pratica della maternità surrogata. E allora cosa fare se comunque in Italia arrivano donne con figli avuti con questa pratica? Togliamo loro i figli perché non li hanno partoriti sebbene siano geneticamente loro? Crediamo che la soluzione passi dalla strada prima indicata: l’adozione in casi particolari. In tal modo non si legittimerebbe direttamente e automaticamente la filiazione tramite maternità surrogata e, soprattutto, ci sarebbe un controllo previo delle capacità genitoriali della donna che vuole adottare. In un ordinamento serio si vaglierebbe con grande attenzione la candidatura di una donna che ha voluto un figlio tramite l’utero in affitto.
Naturalmente nemmeno questa è una soluzione perfetta, sia perché rimarrebbe comunque un certo incentivo a ricorrere alla maternità surrogata sia perché potrebbe favorire l’adozione dei single. Ma crediamo che, in questa ipotesi specifica, i benefici superino i danni. Ciò detto, simile iniziativa dovrebbe accompagnarsi al divieto internazionale della pratica dell’utero in affitto. In tal modo si taglierebbe la testa al toro e non finiremmo più in simili vicoli ciechi.
Insomma ci troviamo in uno dei tanti casi in cui si tenta di raddrizzare ciò che con tanta pervicacia si è voluto storto. E, si sa, le pezze, per quanto cucite con grande attenzione, si notano sempre.