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IL CASO DEL GIORNO

Cognome della madre, vizi di una sentenza "femminista"

Il cognome del padre rispettava un ordine antropologico. Invece la sentenza della Corte sul cognome della madre evidenzia influenze femministe e tre vizi: non c'è esigenza sociale; il figlio si potrebbe sentire depauperato di un lato paterno e la madre porta il cognome del padre: così la Corte si è infilata in un corto circuito. 

Famiglia 29_04_2022

Parliamo del cognome da dare al figlio. Se il figlio è nato da genitori sposati, come è noto, assume il cognome del padre, oppure, se i genitori sono d’accordo e grazie alla sentenza n. 218/16 della Corte Costituzionale, assume il doppio cognome. Se il figlio è nato da genitori non sposati “assume il cognome del genitore che per primo lo ha riconosciuto. Se il riconoscimento è stato effettuato contemporaneamente da entrambi i genitori il figlio assume il cognome del padre” (art. 262 cc), oppure quello di entrambi (sempre grazie alla sentenza n. 218/16). Dunque se il figlio è nato in costanza di matrimonio assume in automatico il cognome paterno o, se così hanno deciso i coniugi, quello di entrambi, ma non quello solo della madre; se è figlio naturale può assumere solo quello materno oppure, in automatico, solo quello paterno, oppure il cognome di entrambi.

Nel 2019 il tribunale di Bolzano solleva presso la Consulta un dubbio di costituzionalità relativo a quelle norme che vietano di attribuire al figlio il solo cognome della madre. Il 14 gennaio del 2021 la Corte costituzionale, nell’ordinanza n. 81, fa presente che prima di sciogliere questo dubbio occorre domandarsi se sia costituzionalmente legittimo l’attribuzione in automatico del cognome del padre. E dunque solleva, disponendone la trattazione innanzi a sé, tale questione di legittimità costituzionale. Ciò che dunque faceva problema era la preferenza del cognome del padre qualora i genitori non decidano per l’attribuzione al figlio di entrambi i cognomi. Perché dunque privilegiare il patronimico al matronimico? Ai giudici appariva discriminatorio.

Come abbiamo visto, la sentenza 218/16 aveva già spostato il baricentro della questione più a beneficio della madre, permettendo l’aggiunta anche del cognome materno. Ma rimanevano in piedi la previsione dell’attribuzione in automatico del cognome paterno (trattasi di una indicazione implicita che si desume dall’intera disciplina sulla materia) e l’impossibilità per le coppie coniugate di assegnare solo il cognome materno.

Il 27 aprile scorso la Consulta ha superato questi due inciampi: “La Corte si è pronunciata sulla norma che non consente ai genitori, di comune accordo, di attribuire al figlio il solo cognome della madre e su quella che, in mancanza di accordo, impone il solo cognome del padre, anziché quello di entrambi i genitori”, si legge nel comunicato stampa della Consulta.

D’ora in poi questa sarà la disciplina normativa riguardante il cognome da assegnare ai figli: “La regola diventa che il figlio assume il cognome di entrambi i genitori nell’ordine dai medesimi concordato, salvo che essi decidano, di comune accordo, di attribuire soltanto il cognome di uno dei due. […] È compito del legislatore regolare tutti gli aspetti connessi alla presente decisione”. Perciò, se i genitori non decidono diversamente, il figlio avrà il doppio cognome, altrimenti potrà avere solo il cognome del padre o solo il cognome della madre. Dunque niente più automatismi a favore del padre e possibilità ora che il figlio porti il cognome della sola madre. Tutto questo varrà sia per i figli di coppie sposate che non.

Tale decisione si fonda almeno su due ordini di motivi. L’attuale disciplina normativa, così hanno spiegato i giudici, contrasta con l’art. 3: i genitori come i coniugi hanno pari dignità. Così la Corte costituzionale con la sentenza 61/2006: “L’attuale sistema di attribuzione del cognome è retaggio di una concezione patriarcale della famiglia, la quale affonda le proprie radici nel diritto di famiglia romanistico, e di una tramontata potestà maritale, non più coerente con i principi dell’ordinamento e con il valore costituzionale dell’uguaglianza tra uomo e donna”. In secondo luogo queste norme cozzano con l’art. 2 riguardante i diritti inviolabili. Uno di questi diritti attiene all’identità personale che sarebbe violata se il figlio fosse privato del cognome di uno dei due genitori. Sulla stessa linea anche diversi pronunciamenti della Corte europea dei diritti dell’uomo e del Consiglio d’Europa.

La Consulta, anche sulla scorta dei precedenti giurisprudenziali sulla materia, non poteva che arrivare a queste conclusioni dato che l’orientamento della coscienza collettiva, di cui si fa portavoce, aborre l’idea che vi sia un capofamiglia, perché ciò viene inteso come un retaggio culturale del passato di carattere fortemente discriminatorio, una imposizione sociale della supremazia patriarcale a danno delle donne. Il cognome maschile è tossico e va combattuto.

Ma le cose non stanno così. In primis abbiamo una motivazione di carattere giuridico che s’impernia sull’esigenza di certezza in materia anagrafica. L’assegnazione del cognome del padre risponde all’esigenza del riconoscimento formale della paternità, perché se mater sempre certa est, pater numquam, ossia la madre è sempre certa (almeno fino all’avvento della maternità surrogata), il padre mai. Se il parto lega il figlio alla madre in modo certo, il cognome paterno tenta di fare lo stesso.

Ma le motivazioni più autentiche per cui la tradizione giuridica privilegia il cognome del padre a quello della madre nell’assegnazione del cognome al figlio si trovano in ambito culturale-antropologico. La famiglia non è una società democratica, di eguali, non è neppure una diarchia. È di diritto naturale che la famiglia sia guidata dal pater familias e, perciò, indicare con il cognome del solo marito l’intera compagine familiare rispecchia questa struttura gerarchica che vede a capo della famiglia il maschio. A cascata ciò comporta che assegnare solo il cognome maschile ai figli significa che quei figli appartengono a quella famiglia che trova la sua impronta specifica in chi la guida, cioè nel padre. Il cognome paterno diventa quindi non limite all’identità personale, ma espressione piena di questa identità perché indica appartenenza.

A beneficio delle femministe in servizio permanente: riconoscere che il marito/padre sia a capo della famiglia non significa che questi sia persona migliore della moglie/madre, che la sua dignità sia più preziosa di quella della sua sposa. Entrambi hanno pari dignità naturale, ma hanno ruoli e dunque responsabilità differenti. E la responsabilità del padre è per diritto naturale maggiore, così come le responsabilità che gravano sul Santo Padre sono infinitamente maggiori rispetto a quelle che possono gravare sul semplice fedele. È un dato di fatto per nulla umiliante.

Ciò ovviamente non significa che la madre non decida, non organizzi, non consigli, non sia di aiuto fondamentale. Chiaramente simili riflessioni sono, per le orecchie dei nostri contemporanei, come la kryptonite per Superman. Questo è dovuto ad un processo culturale di sedimentazione durato secoli in cui l’emancipazione della donna, l’egualitarismo, la guerra contro la legge naturale e l’identità della famiglia, l’eliminazione di ogni differenza specifica tra persone e società naturali per livellare tutto sullo stesso piano, l’odio verso ogni forma di gerarchia e, soprattutto, verso il concetto di autorità e di padre (la prima autorità di carattere naturale), hanno cancellato portati culturali che rispettavano l’ordine naturale delle cose, un ordine che spesso vede qualcuno più in alto di qualcun altro, pur avendo entrambi pari dignità naturale.

Questo lo sfondo, potremmo così dire, antropologico su cui si è articolata la decisione dei giudici della Consulta che, in sintesi, si incardina sulle istanze di un vetero femminismo d’assalto e sull’egualitarismo. L’uguaglianza, tra l’altro, non c’entra nulla, perché questo principio impone di trattare i casi uguali in modo uguale e i casi diversi in modo diverso. E il ruolo del marito è diverso da quello della moglie. Detto ciò però nutriamo anche delle riserve di ordine logico e sociale in merito alla decisione della Corte costituzionale.

La prima: i giudici sprecano inchiostro ad iosa per affermare che il cognome solo paterno potrebbe ledere l’identità del figlio. Ma quanti figli si sono lamentati di ciò? Il fenomeno è così socialmente rilevante da imporre una modifica del codice? Se i giudici sono così attenti alla sensibilità sociale, tanto da diventare interpreti della coscienza collettiva che è oggettivamente mutata in relazione alle tematiche sul ruolo della donna, perché non registrano, su questo punto, la pressochè totale assenza di un’esigenza sociale dei figli di mutare la disciplina sull’assegnazione del cognome, astenendosi da ogni modifica normativa?

In secondo luogo abbiamo visto che i giudici permetteranno ai figli nati in costanza di matrimonio di assumere il cognome della sola madre. Ma, volendo usare la logica applicata dagli stessi giudici, non potrebbe essere questa una decisione che lede l’identità del figlio, quella stessa identità che si voleva tutelare con questa sentenza? Il figlio infatti si potrebbe sentire depauperato del suo lato paterno, amputato della sua parte maschile perchè per sempre marchiato nel suo cognome come figlio della sola madre. Lo stesso dicasi con l’apposizione del doppio cognome: il figlio, ormai grandicello, potrebbe rifiutare il cognome di uno dei due per mille motivi.

Infine un paradosso: abbiamo visto che la Consulta vuole privilegiare il cognome della madre. Ma la madre porta il cognome del padre. E quello del padre è, a sua volta, il cognome di suo padre. E così via. Dunque, come in corto circuito, privilegiando il cognome della madre si finisce per privilegiare i cognomi maschili di una lunga teoria di ascendenti. Il figlio, solo da ultimo, assumerebbe un cognome femminile che in realtà, poi, sarebbe il concentrato di una serie pressochè infinita di nomi maschili. La Consulta, forse senza saperlo, si è infilata in un bel vicolo cieco e il rimedio, secondo la loro prospettiva, ha in realtà ingigantito il danno.