Clericalismo? No, si tratta di atti omoerotici
A proposito della polemica di come definire gli "abusi" commessi da sacerdoti e vescovi, si deve fare riferimento all'abc del catechismo, riguardo la valutazione di qualsiasi atto umano. Per cui definirli "abusi" è come parlare della cornice di un quadro e non del dipinto.
A proposito del tema dei cosiddetti “abusi” e della loro classificazione è necessario ricordare i “fondamentali” per la valutazione di un qualsiasi atto umano.
Dati i tempi è bene premettere che l’espressione di Gesù «Non giudicate» significa non giudicare la moralità della persona altrui, per il semplice fatto che ognuno è incompetente a valutare il deliberato consenso della volontà altrui all’atto e la piena avvertenza dell’intelligenza altrui al contenuto dell’atto – in alcuni casi è anche difficile dare un giudizio sui nostri stessi atti –. Però la stessa espressione di Gesù «Non giudicate» non ci libera dal dovere di fare uso della intelligenza. Anzi le varie parabole di Gesù che chiamano alla responsabilità e alla prudenza sono un appello divino a usare sempre l’intelligenza, specie nella sua funzione di giudizio discretivo pratico, leggi “discernimento”, che è proprio una forma di giudizio. Questo giudizio potrà vertere non sulla persona dell’altro, ma almeno sull’azione compiuta dall’altro, su ciò che cade sotto la mia esperienza conoscitiva.
Ora, qualsiasi atto umano può essere considerato da molti punti di vista. Per amore di brevità consideriamo solo il suo aspetto morale, cioè la sua qualifica di buono (cioè adeguato all’uomo) o cattivo (cioè non adeguato all’uomo). L’atto è qualificato moralmente perché è oggetto della conoscenza e della volontà, dell’intenzione e della scelta. In particolare la moralità dell’atto consiste nella relazione tra l’atto stesso e la regola della ragione oppure, se si vuole, nel fatto che quell’atto è ordinabile al fine ultimo, ai fini intermedi o anche alle esigenze delle virtù: se l’atto è ordinabile al fine ultimo o a un fine intermedio, allora è moralmente buono; se invece non è ordinabile, allora è cattivo, cioè moralmente disordinato.
La bontà di una cosa significa la sua perfezione. Così un atto umano è buono solo se tutte le sue componenti sono buone. Tutti i fattori che concorrono a comporre un atto umano possono essere ricondotti a tre: cioè all’oggetto, al fine e alle circostanze. Quindi, la bontà morale sarà determinata dalla bontà dell’oggetto, da quella del fine e da quella delle circostanze.
In cosa consistono questi tre elementi dell’atto umano? Alcuni esempi ci possono aiutare a individuarli: quando do una notizia a un malato circa la sua patologia alle due di notte per rassicurarlo, l’oggetto dell’atto è “dare una notizia”, cioè “informare”, mentre “al malato”, “circa la sua patologia”, “alle due di notte” sono delle circostanze, e “per rassicurarlo” è il fine del soggetto operante, cioè l’intenzione movente. Oppure, quando senza l’altrui consenso prendo il denaro altrui per pagare una multa, allora oggetto dell’atto è “prendere la roba altrui senza il consenso dell’altro”, quindi è furto; mentre “per pagare una multa” è il fine del soggetto agente, cioè l’intenzione movente.
Quindi, l’oggetto dell’atto umano è ciò che è presentato e offerto alla deliberazione della ragione e alla scelta della volontà. L’oggetto è ciò verso cui si porta direttamente e di per sé l’atto umano. È l’obiettivo proprio e il fine intrinseco dell’atto umano. Mentre il fine del soggetto agente è il motivo, il fine estrinseco, l’intenzione soggettiva di chi agisce. Le circostanze sono degli elementi importanti che fanno come da cornice rispetto all’oggetto e al fine soggettivo dell’agente: possono riguardare il luogo e il tempo dell’atto, il modo della sua ideazione e realizzazione, le qualità personali di chi agisce o di coloro verso cui si agisce. «Concorrono ad aggravare oppure a ridurre la bontà o la malizia morale degli atti umani. Esse possono attenuare o aumentare la responsabilità di chi agisce. Le circostanze in sé non possono modificare la qualità morale degli atti stessi; non possono rendere né buona né giusta un’azione intrinsecamente cattiva», così insegna il Catechismo della Chiesa Cattolica § 1754.
Quindi, il fattore che dà la specie morale all’atto è primariamente l’oggetto dell’atto, mentre secondariamente sono il fine dell’agente e le circostanze. Così nel primo esempio l’atto di informare ha un oggetto buono o indifferente; mentre nell’esempio del furto l’oggetto è cattivo. E ciò che specifica secondariamente l’atto è l’intenzione dell’agente: così nel primo esempio sarà il rassicurare, quindi un fine buono; e nell’esempio del furto è il pagare una multa, quindi anche un fine buono.
Ora, nella complessità dell’agire umano si possono dare alcuni casi nei quali tra oggetto proprio dell’atto e fine dell’agente c’è una relazione propria e diretta (es. mi sottopongo a un intervento chirurgico al fine di guarire). In questi casi la moralità specifica è determinata dall’oggetto (es. l’atto, essendo un atto terapeutico in senso proprio, è moralmente buono).
Nei casi, invece, in cui l’oggetto e il fine non sono tra loro correlati, ma sono messi in relazione solo da colui che agisce (es. assumo un farmaco per simulare una malattia; rubo per commettere adulterio), la moralità specifica degli atti esterni è duplice: sarà determinata sia dall’oggetto che dall’intenzione (es. sarò sia imprudente che simulatore; sia ladro che adultero). Mentre la moralità specifica degli atti interni sarà determinata principalmente dall’intenzione dell’agente, perché l’oggetto è voluto solo in quanto è una realizzazione concreta del fine soggettivo dell’agente.
Quanto alle circostanze, esse conferiscono all’atto umano la bontà o la malizia solo in senso secondario. Se non esprimono una relazione particolare rispetto alla regola della ragione, appartengono alla stessa specie morale dell’oggetto e, perciò, possono aggravare o attenuare la moralità in modo più o meno notevole. Sono queste le circostanze che consistono nella quantità, nella durata, nell’intensità o nel modo di esecuzione (es. fare una diagnosi con cura o con disattenzione).
Veniamo al tema oggi dibattuto: un uomo cui è stato conferito l’ordine sacro compie, abusando della sua posizione, gesti omoerotici nei confronti di un altro uomo consenziente o non consenziente. L’oggetto dell’atto umano è compiere gesti omoerotici: come insegna il Catechismo della Chiesa Cattolica § 2357 «gli atti di omosessualità sono intrinsecamente disordinati», quindi si tratta di un oggetto cattivo. Mentre abusare della posizione che gli deriva dall’ordine sacro e la presenza o assenza del consenso dell’altro sono delle circostanze dell’atto. E in particolare sono circostanze che aggravano la malizia dell’atto stesso.
Quindi parlare di questo tema in termini di “abusi” è come voler parlare della cornice di un quadro, e non del dipinto. Se vogliamo essere realisti e usare la parresia, la schiettezza evangelica oggi tanto invocata, chiamiamo i fenomeni con il loro nome: si tratta di gesti omoerotici e quindi oggettivamente disordinati.
Infine, un principio di buon senso insegna che quando c’è mare agitato la nave sta in porto. Fuor di metafora in un contesto di turbolenza è vincente la fedeltà ai principi-guida dell’agire.