Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
Santi Cosma e Damiano a cura di Ermes Dovico
L'INTERVISTA/ ANDREA ORSINI

Cina: dietro la facciata di quiete, la tempesta su Taiwan

Ascolta la versione audio dell'articolo

Xi Jinping si presenta all'Onu come il leader della stabilità e dell'affidabilità. Ma mantiene la sua postura bellicosa con Taiwan, che vuole riunificare alla Cina. Quanto è forte il rischio di conflitto? Ne parliamo con l'on. Andrea Orsini (Forza Italia).

Esteri 26_09_2025
Taiwan (La Presse)

All’80ma sessione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, il presidente cinese Xi Jinping si presenta come un leader “responsabile” contrapposto all’imprevedibilità di Trump. Ma dietro questa facciata si cela una politica bellicosa. Prima di tutto contro Taiwan, che la Repubblica Popolare Cinese, dopo averla rimpiazzata all'Onu, sta continuando ad emarginare ed escludere da tutti i forum internazionali.

Il Pacifico occidentale, ancora una volta dopo le numerose guerre del Novecento, sta tornando ad essere un’area di conflitto. La Nuova Bussola Quotidiana ne ha parlato con Andrea Orsini, deputato di Forza Italia, vicepresidente della Delegazione italiana presso l’Assemblea Parlamentare della Nato, rientrato di recente da Taiwan.

Onorevole Orsini, la rappresentanza diplomatica degli Usa a Taipei accusa la Repubblica Popolare Cinese di fare del revisionismo storico un’altra arma per isolare Taiwan. In che modo Pechino sta riscrivendo la storia?
La Cina sostiene che gli incontri dei leader alleati durante la Seconda Guerra Mondiale, volti a designare il mondo post-bellico, in particolare la Conferenza del Cairo nel 1943 e quella di Potsdam nel 1945, avrebbero stabilito che il Giappone doveva restituire alla Cina “Formosa e le isole Pescadores” (Formosa era allora il nome di Taiwan, ndr), condizioni queste accettate dal Giappone all’atto della resa, con la celebre firma nella rada di Tokyo sul ponte della corazzata Missouri. La posizione cinese è scorretta dal punto di vista formale e sostanziale, perché il Cairo e Potsdam non erano atti giuridici, ma solo di indirizzo politico-militare (peraltro la leadership cinese all’epoca era saldamente in mano a Chiang Kai-shek). L’unico atto con un valore nel diritto internazionale è il trattato di pace di San Francisco, con il quale il Giappone rinuncia ad ogni pretesa su Formosa ma senza specificare a favore di chi. Del resto neppure il voto dell’Assemblea generale dell’Onu, che riconosce la Repubblica Popolare cinese come unico rappresentante della Cina, ed esclude Taiwan, fa alcun cenno alla sovranità sull’isola. Dunque le motivazioni legali addotte da Pechino sono pretestuose e volte ad accrescere la pressione politico militare per isolare Taiwan.

Lei è stato a Taiwan la settimana scorsa. Che atmosfera ha trovato sull’isola?
Confesso di essere rimasto sorpreso. Credevo di arrivare quasi in una piazzaforte assediata. Invece si respira un clima – almeno apparentemente – molto sereno. Negli incontri che abbiamo avuto con molte autorità taiwanesi, il tema Cina è stato da loro appena sfiorato. E alle mie domande in merito, le loro risposte sono state molto rassicuranti. Il prezzo di un attacco a Taiwan – che è un paese potentemente armato – secondo la leadership taiwanese sarebbe talmente alto per la Cina, dal punto di vista militare, politico ed economico, che nessun governo cinese sano di mente lo farebbe davvero. La chiamano la “strategia del porcospino”. L’animaletto sa che non potrebbe mai sopravvivere ad uno scontro con un grande predatore, ma se dispiega i suoi aculei il predatore si farebbe così male che evita di attaccarlo. Un alto ufficiale americano mi ha riassunto così la situazione: “Taiwan potrebbe diventare l’Ucraina di Xi Jinping”. I taiwanesi sono molto più preoccupati dell’isolamento diplomatico e dell’impossibilità di partecipare ad organizzazioni internazionali come l’Oms e sono protesi ad incrementare gli scambi economici con l’Europa e gli Stati Uniti. Semplificando, si potrebbe dire che i dazi li preoccupano più delle portaerei.

Taiwan ha sempre contato sul sostegno militare statunitense, non dichiarato, causa politica Una Sola Cina, con cui gli Usa riconoscono Pechino quale unico governo cinese, non Taipei. Ma con un Trump molto isolazionista non rischiano di trovarsi soli?
Nei giorni precedenti al mio arrivo a Taiwan avevo avuto diversi incontri, alle Hawaii e in California, con i vertici militari americani responsabili del teatro del Pacifico. Li ho trovati molto attenti a un fronte che preoccupa gli Stati Uniti molto più di quanto accade verso l'Europa. E quando ho chiesto loro quale fosse la priorità strategica alla quale dedicano maggiore attenzione, mi hanno risposto concordemente “lo Stretto di Taiwan”. L’isolazionismo un po’ ondivago di Trump riguarda l’Atlantico, molto più che il Pacifico.

Che umore ha percepito fra i comandi americani?
Tutti, i vertici militari ma anche i colleghi del Congresso Usa, sia repubblicani che democratici, che partecipavano con me alla missione dell’Assemblea Parlamentare Nato, esprimevano grande determinazione e fiduciosi nella loro capacità di deterrenza.

Il vantaggio numerico e tecnologico statunitense è ancora tale da scoraggiare ogni aggressività cinese?
Sul piano quantitativo la Cina, dal 2000 ad oggi, ha conosciuto una crescita esponenziale impressionante, che ha portato la Repubblica Popolare a superare gli Stati Uniti e i loro alleati – Australia, Giappone, Corea del Sud – in ogni tipo di sistema d’arma, escluse le portaerei. L’Occidente mantiene però una superiorità tecnologica ed anche nella qualità dell’addestramento che al momento garantisce ancora una deterrenza credibile. Il livello tecnologico cinese va rapidamente migliorando, ma anche gli Stati Uniti non stanno fermi, né nella ricerca, né nella realizzazione di nuovi armamenti.

Anche l’Italia riconosce il principio Una Sola Cina, ma Taiwan è una democrazia amica. Che cosa si può fare per proteggerla meglio?
L’Italia riconosce il principio di una sola Cina ma, come tutto l’Occidente, rifiuta ogni cambiamento non consensuale degli assetti dello Stretto di Taiwan. Ovviamente sul piano militare in forma diretta possiamo fare poco, anche se la recente crociera in quelle acque di un gruppo navale italiano, guidato dalla portaerei Cavour, è stato un segnale molto apprezzato di fronte alle continue provocazioni e minacce cinesi. Quello che Taiwan ci chiede è un’intensificazione della collaborazione commerciale, e l’appoggio per ammettere Taipei nelle organizzazioni internazionali di tipo tecnico e commerciale. Approfitto però per aggiungere una considerazione, che in parte mi ha sorpreso. Taiwan non è più quella di Chiang Kai-shek, che non ha voluto essere sepolto sull’isola – il suo feretro è conservato su un piedestallo – per attendere la riconquista della Cina ed essere inumato nella sua città natale. Oggi Taipei, ragionevolmente, non pensa affatto a una riconquista e non rivendica la sovranità sulla Cina. Il Partito di governo, il Partito Democratico, nato a sinistra ma oggi il più marcatamente anticinese, pensa a Taiwan non come ad un’altra Cina, ma come ad uno Stato indipendente che con la Cina non ha nulla a che fare. Idealmente vorrebbe un riconoscimento reciproco con la Repubblica Popolare, che Xi ovviamente rifiuta. Il Partito di Chiang Kai-shek, il Kuomintang, all’opposizione, si considera ancora legato alla Cina ma pensa a una intensificazione dei rapporti che un giorno lontano porti all’unificazione. Entrambi paradossalmente accettano quindi il principio di una sola Cina. Ma entrambi vogliono difendere con ogni mezzo la libertà di Taiwan, modello straordinariamente riuscito sul piano politico ed economico e prova clamorosa della superiorità del capitalismo liberale. Taiwan è al 13° posto al mondo per Pil pro capire, calibrato a parità di potere d’acquisto. La Cina comunista, che ci sembra battere record su record, è al 77°. E per inciso l’Italia è al 32°.