Cicerone e il pantheon delle divinità romane
Cicerone crede all’esistenza della divinità, ma non sembra credere alla pluralità degli dei. Certo, non scrive mai esplicitamente un trattato per smontare la religione tradizionale. Ma nelle sue opere è evidente che il grande retore latino credesse nell’esistenza di un dio sommo da cui dipende tutto
A Roma Giove era il padre di tutti gli dei, sposato con Giunone, dea del matrimonio e dei legami. Marte, figlio delle due divinità, era il dio della guerra, sposato con Venere, la dea dell’amore. Il pantheon dei romani si componeva di decine e decine di divinità che erano state in gran parte assimilate nei secoli dai tanti popoli con cui i Romani erano venuti in contatto e di cui avevano assimilato spesso usi e costumi. I culti stranieri erano consentiti e introdotti a Roma, purché non diventassero un pericolo sociale.
Ma i Romani credevano davvero a questo pantheon di divinità all’epoca di Cicerone, nel I secolo a. C., quando ormai si stava avvicinando il tempo della nascita di Cristo? Che cosa pensava il grande retore latino sul folto e crescente numero di divinità che affollava il pantheon romano? Il filologo Károly Kerényi ritiene che «se vogliamo apprendere qualcosa dell’essenza della religione romana, dobbiamo prestare ascolto anche a Cicerone», perché, in quanto augure, poteva accedere di persona almeno ai documenti presenti nell’archivio del suo collegio e spesso nelle sue opere appare evidente che lui si sia avvalso di documenti provenienti da archivi sacerdotali.
Cicerone scrive il De natura deorum forse nell’agosto del 45 a. C., dopo aver perso l’amata figlia Tullia nel febbraio dello stesso anno. Ragioni anche personali spingono, quindi, il grande retore romano ad affrontare temi religiosi ed esistenziali. Nell’opera Cicerone presenta la visione religiosa degli epicurei, degli stoici e dei probabilisti accademici. Scarta la visione degli epicurei: «Se è vero che gli dèi non si curano affatto delle cose umane, che ne sarà della pietà, del sentimento del sacro e della religione?». Sembra, invece, avvicinarsi alla posizione dei probabilisti accademici secondo i quali il «consensus omnium populorum lex naturae putanda est» ovvero «l’accordo di tutti i popoli deve essere considerato come una legge di natura». Da sempre i popoli hanno creduto all’esistenza degli dei, per questo essi devono pur esistere. Cicerone crede, quindi, all’esistenza della divinità, ma non sembra credere alla pluralità degli dei. Certo, non scrive mai esplicitamente un trattato per smontare la religione tradizionale e distruggere il pantheon delle divinità romane, ma nelle sue opere è evidente che il grande retore latino credesse nell’esistenza di un dio sommo da cui dipende tutto.
Nel trattato De divinatione Cicerone contesta l’attendibilità degli oracoli e dell’aruspicina e non esita a scrivere: «Allo stesso modo in cui si devono estirpare le radici della superstizione, si deve diffondere la religione, in accordo con la conoscenza della natura». Giustifica, poi, la pratica della divinazione in quanto istituzione «politica»: «è doveroso per chiunque sia saggio difendere le istituzioni dei nostri antenati mantenendo in vigore i riti e le cerimonie».
È nel Somnium Scipionis che Cicerone presenta il dio sommo da cui tutto dipende. Ambientato nel 129 a. C., scritto tra il 55 e il 51 a. C., il dialogo appartiene al sesto libro del De re publica. L’autore s’immagina che il comandante Scipione l’Emiliano, vincitore della Terza guerra punica nel 146 a. C., racconti all’amico Lelio il sogno di vent’anni prima mentre si trovava a Cartagine. All’Emiliano era apparso in sogno il nonno, Scipione l’Africano Maggiore, che gli mostrava la gloria che spetta ai benemeriti nei confronti della patria, cioè a «tutti coloro che hanno conservato, aiutato, ingrandito la patria, è assicurato in cielo un posto particolare, dove i beati si godono l’eternità».
Il nonno gli parla, così, dell’eternità dell’anima: «Sforzati e considera che non sei mortale tu, ma questo tuo corpo; né infatti tu sei quale ti mostra questo tuo aspetto corporeo, ma ognuno è quale è la sua anima, e non già quell’apparenza che può essere mostrata a dito. Sappi che tu sei un dio, se è dio invero colui che ha forza, pensiero, memoria, provvidenza […]. Come lo stesso dio eterno muove un mondo per sua parte mortale, così l’anima sempiterna muove il fragile corpo». Coloro che noi reputiamo morti, sostiene l’Africano, proprio loro, invece, vivono perché si sono liberati dalle catene del corpo. Allora Scipione l’Emiliano è preso dal dubbio se non sia meglio liberarsi subito dalla prigione del corpo attraverso il suicidio, prima del tempo stabilito dagli dei.
Il padre di Scipione l’Emiliano, ovvero Lucio Emilio Paolo, il famoso vincitore di Pidna, fattosi incontro al figlio, lo dissuade dicendogli: «Gli uomini […] vengono al mondo a questa condizione, di custodire cioè quel globo, che tu vedi nel centro di questo spazio e che è detto Terra, e loro fu data l’anima (dedotta) da quei fuochi eterni, che voi chiamate astri e stelle, le quali, di forma sferica e rotonda, animate da menti divine, percorrono con incredibile velocità i loro giri e le loro orbite. Perciò tu […] e tutti i pii dovete trattenere ancor l’anima in prigionia del corpo, né potete emigrarvene dalla vita umana senza l’ordine di colui dal quale l’anima vi è stata data, per non sembrare d’aver disertato l’ufficio umano commessovi dal dio».
Come si può ottenere il premio dei beati, la Via Lattea da cui tutto appare «bellissimo e mirabile»? L’indicazione del padre Paolo non lascia adito a dubbi al riguardo: «Coltiva la giustizia e la pietà, la quale pur essendo già di grande importanza nei rapporti con i genitori ed i familiari, lo è di grandissima nei confronti della patria». La pietas è quel rapporto di rispetto e di riverenza del romano nei confronti di chi gli è superiore (il genitore, il comandante, la patria, la divinità).
Come appare il regno dell’aldilà promesso a chi ha ben meritato nei confronti della patria? I Campi Elisi del Somnium sono collocati nella Via Lattea, «una fascia risplendente tra le fiamme, dal candore abbagliante», da dove appare al giovane Scipione l’Emiliano uno spettacolo stupefacente, coronato di una moltitudine di stelle. Il padre Lucio Emilio Paolo si fa incontro al giovane Emiliano e gli descrive l’universo così come appare dalla Via Lattea: «Eccoti sotto gli occhi tutto l'universo compaginato in nove orbite, anzi, in nove sfere. Una sola di esse è celeste, la più esterna, che abbraccia tutte le altre: è il dio sommo che racchiude e contiene in sé le restanti. In essa sono confitte le sempiterne orbite circolari delle stelle, cui sottostanno sette sfere che ruotano in direzione opposta, con moto contrario all'orbita del cielo».
Il Somnium Scipionis avrà una grande diffusione nel Medioevo e sarà anche fonte del Paradiso dantesco. Il nonno Scipione l’Africano profetizza al nipote il futuro che lo attende proprio come il trisavolo Cacciaguida farà a Dante nel canto XVII del Paradiso. In entrambi i casi le profezie raccontano della fama e degli insuccessi dei protagonisti coinvolti: se Dante subirà prima l’esilio e poi otterrà la fama, Scipione l’Emiliano conseguirà in primis grande successo e poi riceverà la morte proprio per mano di consanguinei, come del resto Dante finirà in esilio a causa dell’invidia della «perfida noverca» (di nuovo una parente, quindi). In entrambi i casi, poi, le profezie si mescoleranno con gli insegnamenti impartiti da tramandare ai posteri.
Inoltre, nelle due opere compare una musica celestiale (il dulcis sonus del Somnium a confronto con «l’armonia» del I canto del Paradiso) e la Terra vista dalla via Lattea appare piccola, «parva» in Cicerone, così come Dante la definirà «l’aiuola che ci fa tento feroci» (Paradiso XXII). Le analogie, è innegabile, non finiscono qui. La fama che Dante ricerca e che teme di perdere (come emerge nel dialogo con Cacciaguida) se non racconterà tutto quanto ha visto è argomento centrale anche nel Somnium. Cicerone riconosce nelle parole di Scipione l’Africano che la fama è effimera e transeunte, limitata nello spazio e nel tempo, proprio come Dante definisce la fama come «un mondan rumore» che ora soffia da una parte e ora soffia dall’altra (Purgatorio XI).