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CAPITALE

Chi mai guarirà Roma dalla sua malattia mortale?

L’attuale grande eco mediatica della battaglia per le candidature a sindaco del Comune di Roma è una buona occasione per ricordarsi che la metropoli laziale è uno dei maggiori problemi del nostro Paese, e tra questi il più censurato. Nonostante le sue potenzialità, Roma vive divorando risorse che sostanzialmente sottrae all’Italia del Nord. 

Editoriali 24_04_2016
La Lupa, simbolo di Roma

L’attuale grande eco mediatica della battaglia per le candidature a sindaco del Comune di Roma è una buona occasione per ricordarsi che la metropoli laziale è uno dei maggiori problemi del nostro Paese, e tra questi il più censurato. La memoria della sua antica storia imperiale e la sede del Papato ne fanno un luogo-simbolo di rilievo planetario, con un’attrattività ulteriormente moltiplicata da un patrimonio monumentale che per qualità e per vastità non ha confronti nel mondo. 

In forza di tali risorse la città sarebbe tra l’altro una “macchina” di straordinario valore economico, un potenziale gigantesco motore di sviluppo dell’intera Italia peninsulare. Invece, vive divorando risorse che sostanzialmente sottrae all’Italia del Nord cui viene così impedito di assicurare all’insieme del Paese un ruolo non subalterno nel nuovo e impegnativo contesto della globalizzazione. Nessun governo nazionale ha sin qui osato porre il problema. Non se ne ricorda uno che non si sia piegato alle richieste del vorace ceto politico locale romano per il quale ogni occasione è buona per chiedere allo Stato nuove risorse da sprecare. 

Avvalendosi con abilità della vicinanza con il proverbiale Palazzo, questo ceto politico ha maturato nel tempo una grande esperienza in materia. Per spillare soldi all’erario ogni occasione è buona. Paradossalmente persino la riforma del Titolo V della Costituzione varata nel 2001, che a parole avrebbe dovuto aprire l’Italia al federalismo (quello autentico però, non quello finto e controproducente cui venne invece ridotta), è stata colta al volo per trasformare nel 2010 il comune di Roma in un ente locale sui generis, chiamato pomposamente “Roma Capitale”, che sembra fatto apposta per ottenere dallo Stato e spremere da chi viene da fuori sempre nuove risorse da versare nelle casse sfondate dell’amministrazione cittadina.

Una lampante conferma del carattere artificiale e parassitario dell’economia di Roma viene sia dal fatto che, caso unico in Europa, essendo in prossimità del mare se ne allontana, e non dispone di un moderno porto commerciale; e soprattutto dalla sua assoluta incapacità di irradiare sviluppo attorno a sé. Attorno a Roma non esiste nulla di paragonabile agli Hinterland di città come Torino, Milano, Genova e così via. Siccome la città vive non producendo, bensì consumando ricchezza, come si esce dal centro urbano si piomba nel Terzo mondo. 

Ciò è tanto più inescusabile se si considera che, caso unico fra tutte le città italiane, con i suoi oltre 1285 chilometri quadri di superficie il Comune di Roma è vastissimo. Più vasto, tanto per fare qualche esempio, dell’intera provincia di Como o quella di Varese.  Si pensi in confronto che Milano ha una superficie di poco più di 181 chilometri quadri, e Torino e Napoli rispettivamente poco più di 130 e di 117 chilometri quadri. Se dunque “Roma Capitale” smettesse finalmente di vivere alle spalle del resto del Paese, il suo vasto territorio foraneo, oggi quasi abbandonato, potrebbe diventare sede di attività agro-industriali, manifatturiere e logistiche a servizio immediato dell’economia di una metropoli che è in grado di vivere benissimo del suo. 

Almeno a chi guardi a Roma da lontano, le varie candidate e candidati in lizza sembrano un po’ tutti della stessa pasta; e per i motivi che si dicevano non potrebbe essere diversamente.  Per il bene della città e di tutto il Paese si deve ciononostante sperare nella sorpresa di una svolta insperata: nella salita infine al Campidoglio di qualcuno deciso e capace di far passare la società e l’economia romane dal parassitismo alla produttività anche come conditio sine qua non per una drastica riforma dell’amministrazione centrale dello Stato.  Sia Roma che tutta l’Italia ne hanno urgente bisogno.