Chesterton contro la superstizione del divorzio
Dopo quasi un secolo esce anche
in italiano il suo grande canto d'amore ragionevole per il matrimonio, nemico politico dei riduzionismi ideologici.
Nel 1920, Gilbert Keith Chesterton (1874-1936) pubblicò un gran bel libro, La superstizione del divorzio (trad. it., a cura di Pietro Federico, San Paolo, Cinisello Balsamo [Milano] 2011), sviluppato a partire da cinque articoli usciti su The New Witness, il settimanale che il polemista inglese diresse dal 1916 al 1923. Fu infatti su quelle pagine che prese forma la visione politica ed economica che accomunava Chesterton al suo grande amico e sodale Hilaire Belloc (1870-1953) - il padre del periodico, fondato nel 1911 con il titolo The Eye-Witness -, la quale trovò poi piena espressione nell’ulteriore riformulazione del giornale, dal 1925 chiamato G.K.’s Weekly. Chesterton lo diresse fino alla morte e lì nacquero alcuni dei saggi più riusciti e significativi della sua produzione, fra cui quel “manifesto” del suo pensiero che fu, nel 1927, The Outline of Sanity, edito in italiano come Il profilo della ragionevolezza (trad. it., Lindau, Torino 2011).
La superstizione del divorzio fu scritto e pubblicato prima della conversione di Chesterton al cattolicesimo, avvenuta nel 1922, ed è un’appassionata tanto quanto ragionevole apologia del vincolo matrimoniale e della famiglia in gran parte basata su argomentazioni di tipo naturale e razionale. Il suo nucleo centrale è la difesa dell’amore tra uomo e donna come realizzazione piena dell’umanità della persona contro le forze disgregatrici dell’antiumanesimo, un baluardo di civiltà che si erge a difesa dell’umano contro ogni potere avverso e che quindi - è quasi una premessa culturale alla conversione religiosa di Chesterton - trova la sua massima espressione nella dimensione sacramentale. Di più: in Chesterton il matrimonio e la famiglia sono persino un “programma” poltico-economico contro - mai titolo è più azzeccato - le superstizioni alimentate dalle ideologie che, nessuna esclusa, prospettano un uomo falsamente bastevole a se stesso, anarchico, disordinato, misura solipsistica del creato, solo.
Per questo sorprende che in una recensione apparsa su Avvenire l’11 giugno sia attribuita a Chesterton l’idea (così il titolo) che il divorzio è «roba di destra». Quasi che difendere matrimonio e famiglia fosse “roba di sinistra”. Stigmatizzando la «distorsione ideologica» che ne fa «un autore conservatore, “di destra”, araldo di visioni “reazionarie” su temi quali l’islam, la bioetica, l’economia», l’autore sostiene che tutto sta in questa frase di Chesterton: «Se è vero che il Socialismo attacca la famiglia in teoria, è ancor più sicuro che il Capitalismo lo fa nella pratica».
Ora, a parte il fatto che nei quasi cent’anni intercorsi tra il 1920 britannico in cui lo scrittore inglese pubblicava questo suo aureo libro e il 2011 globalizzato in cui esso esce finalmente in italiano “il socialismo” ha dimostrato di essere capacissimo di passare dalle parole ai fatti, è l’identificazione acritica fra spirito conservatore ed economia capitalista che va stretta a Chesterton.
Senza dubbio a Chesterton il termine “capitalismo” piaceva ben poco. Generico, di origine marxista, sostanzialmente denigratorio, esso concentra tutta l’attenzione sulla produzione dimenticandosi del produttore: la persona umana che delle transazioni “capitaliste” è l’attore.
Ne Il profilo della ragionevolezza, dove più compiutamente che altrove egli ragiona di economia politica, Chesterton scrive che «capitalismo è una bruttissima parola». Ma questo soprattutto «perché altre persone la usano intendendo altro». C’è per esempio chi pensa «che si riferisca a qualsiasi cosa comporti l’uso di capitale. Ma se quest’uso è troppo letterale, il termine capitalismo diventa troppo generico e pertanto troppo ampio». Infatti, «se l’uso del capitale è capitalismo, allora tutto quanto lo è. Il bolscevismo è capitalismo e il comunismo anarchico è capitalismo; e ogni disegno rivoluzionario, per quanto estremo, è sempre capitalismo».
Per contro, c’è chi invece sembra «servirsene per indicare semplicemente la proprietà privata», di cui Chesterton, fedele al magistero cattolico, era uno strenuo difensore. Tanto da spiegarsi così: «Se capitalismo significa proprietà privata, io sono un capitalista. Se capitalismo significa capitale, tutti sono capitalisti». Infatti, «la verità è che ciò che chiamiamo capitalismo dovrebbe essere chiamato proletarismo».
Ciò che Chesterton denuncia nei sistemi politico-ideologici è cioè sempre la riduzione economicistica dell’uomo, la visione materialistica dei rapporti sociali, la schiavizzazione del lavoro umano mediante concentrazione dei beni e della proprietà nelle mani di pochi, siano questi le cricche (eventualmente anche assistenzialistiche) dello Stato (servile, come lo definiva Belloc) o i colossi privati che negano l’essenza stessa dell’uomo proprietario e signore del creato, nonché la mercificazione delle interazioni umane che hanno - appunto - nel matrimonio e nella famiglia il primo e l’ultimo nemico.
Quando Chesterton scrive che l’illusione prometeica della liberazione divorzista è un cavallo di battaglia della dottrina e della prassi socialcomunista e liberalcapitalista espone una raffinata endiadi: utilizza due espressioni sorelle che rafforzano il medesimo concetto con toni da gran conservatore della dottrina cattolica sull’uomo e sul creato. Chesterton e i suo amici - il citato Belloc e il padre domenicano irlandese Vincent McNabb (1868-1943) – lo chiamavano distributismo (o “distribuzionismo”) e si fondava sull’idea che la proprietà privata andasse diffusa fra gli uomini a macchia d’olio: «Troppo capitalismo non significa troppi capitalisti - osservava Chesterton in The Uses of Diversity: A Book of Essays (1920) -, ma troppo pochi capitalisti». Difensori, grazie alla diffusione delle proprietà privata, di quei grandi antidoti naturali alle ideologie socio-politiche che sono il matrimonio e la famiglia.