Cento giorni da Leone
Tanti ne sono trascorsi dall'inizio del pontificato di Prevost, partito all'insegna di spiritualità, verticalità, normalizzazione e riconciliazione. Con sollievo di alcuni e delusione di altri (che è anch'essa un buon segno).

Alla data odierna del 16 agosto 2025 si compiono i fatidici primi “cento giorni” del pontificato di Robert Francis Prevost, eletto Papa col nome di Leone XIV l'8 maggio scorso (giorno affidato alla duplice protezione della Madonna di Pompei e dell'Arcangelo Michele). Malgrado la cifra tonda e la valenza simbolica, il tempo trascorso da allora è una porzione piuttosto trascurabile nell'arco di un pontificato, destinato mediamente a durare molto di più di un qualsiasi governo. Se questo valeva per i due precedessori di Prevost, pur eletti in tarda età, vale a maggior ragione per il neanche settantenne Leone, cui si prospetta un pontificato sicuramente più lungo, rispetto al quale i primi cento giorni appena compiuti non sono che l'antifona di introito. Pochi “versetti”, tuttavia non trascurabili per farsi un'idea del prosieguo.
Spiritualità, verticalità, normalizzazione e riconciliazione: sono le quattro parole con cui si può sintetizzare l'antifona leonina, sin dalla prima apparizione sulla loggia di San Pietro. La spiritualità in questione, naturalmente, è quella agostiniana, che il Papa giustamente non perde occasione per dispensare in “pillole”. Ma sin dall'inizio essa si è manifestata innanzitutto nel ritorno della “verticalità”, come ha osservato, tra gli altri, Stefano Fontana. Appena eletto Prevost ha esordito con un saluto liturgico, «la pace sia con voi», le parole del Cristo risorto, non esattamente un “buonasera” qualunque. L'indomani, celebrando nella Cappella Sistina, ha di nuovo portato una ventata di “verticalità” con quello «sparire perché rimanga Cristo». E così è stato: è letteralmente sparito fino all'improvvisata del giorno dopo a Genazzano, santuario mariano caro agli agostiniani, lasciando a bocca asciutta i cacciatori di aneddoti della serie “il Papa della porta accanto”.
Anche nelle "improvvisate" Leone XIV mantiene senso della misura e profondità spirituale. Non solo Genazzano. Si veda la recentissima visita al giovane ricoverato al Bambino Gesù: poche parole trapelate ed estremamente edificanti, sia da parte del Papa sia dei familiari dell'infermo. Per carità di patria eviteremmo volentieri il confronto con la visita del predecessore all'inferma Bonino, ma è un confronto doveroso e necessario per tastare il polso della situazione e chiedersi se almeno in parte l'aria è cambiata.
Fin qui il poco che sappiamo, a partire dal quale però è lecito formulare qualche ipotesi sul molto che ancora non sappiamo. A scanso di equivoci e a costo di sembrare lapalissiani: Prevost non è Bergoglio e, naturalmente, non è nemmeno l'anti-Bergoglio. Al contempo, Leone XIV sembra incline a riprendere alcune tematiche care a Francesco, dalla questione ecologica, ai migranti alla sinodalità. Ma l'antifona lascia almeno supporre (e sperare!) che potrebbe anche “ricalcolarli” a mo' di navigatore in una direzione più cristocentrica, senza farne dei mantra e ricollocandoli in un'ottica differente da quella prevalentemente socio-politica, per non dire ideologica, che ha caratterizzato in maniera crescente il pontificato del predecessore.
È inoltre verosimile che per le nomine principali procederà a decisioni ben ponderate e non necessariamente immediate. Tant'è che dopo tre mesi non c'è ancora il suo successore nel ruolo chiave di prefetto del Dicastero per i Vescovi. E che privilegerà la riflessione rispetto alla polarizzazione sulle questioni “calde” che agitano la barca di Pietro, valga per tutte la ferita aperta da Traditionis Custodes: difficile immaginare che Leone voglia girare il coltello nella piaga al grido di "dagli all'indietrista!". Più intricati il dossier Cina o il permanente “cantiere” sinodale in Germania, sui quali appare prematuro incalzarlo e chiedergli, parafrasando Jacopone da Todi: “Que farai Papa Leone? Èi venuto al paragone”.
Il cambiamento c'è, ma non nel senso di un poco realistico ribaltone (che di per sé non è il metodo della Chiesa, come già evidenziato da osservatori ben più autorevoli), bensì di una normalizzazione. Che parla anche attraverso i simboli. Poiché l'abito fa il monaco (e anche il rifiuto di esso), è inevitabile notare che anche nelle insegne esteriori Leone XIV ha scelto di non fare i “capricci”: i panni di Pietro vengono prima della persona e dei gusti del Papa. Così il ritorno di quella quella mozzetta rossa che sembrava mandata in soffitta ha significato ben più di una questione di sartoria: indica che l'eletto non è il “superPapa” che deve sforzarsi di apparire più buono o più umile dei predecessori. E il ritorno a Castel Gandolfo indica che non è uno stakanovista che disdegna un po' di sana villeggiatura in nome di una concezione "feriale" del papato. Al contrario, è uno degli anelli di una catena che risale a Pietro e trascende la singola personalità che detiene le somme chiavi in questa o quella specifica congiuntura storica. E Leone XIV, in particolare, dimostra di non essere tipo da cestinare impulsivamente ciò che meno gli aggrada e men che meno da atteggiarsi a “rifondatore” di Santa Romana Chiesa. Laddove il 13 marzo 2013 i simboli (e il loro rifiuto) parlavano di rottura col passato anche recente, dall'8 maggio sembra prevalere un linguaggio di ricucitura e riconciliazione.
Infine non va trascurata l'involontaria diagnosi dei fedeli (e dei meno fedeli). Si riscontra un certo sollievo tra quanti desideravano che, chiunque fosse eletto, il vicario di Cristo parlasse di Cristo. E per la stessa ragione si registra una certa delusione tra quanti cercavano un personaggio mediatico da “misurare” in base ad aperture vere o presunte o sbandierate: se a costoro non piace è sicuramente un buon segno.