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LETTURE PER L’ESTATE/8

Cento giorni a Beirut, scoprendo la fraternità

Il 14 settembre 1982 venne ucciso il presidente del Libano Bashir Gemayel, sorsero degli scontri e nacque una missione internazionale, con l’esercito italiano che sbarcò a Beirut il 24 settembre. Ne faceva parte il diciannovenne Franco Bettolini, che oggi racconta quell’esperienza in “Postazione 23. I miei 100 giorni a Beirut” (Ares). L’orrore della guerra gli fece scoprire sentimenti che non aveva mai provato prima…

Cultura 16_08_2020

Il 14 settembre del 1982 venne ucciso il neo eletto presidente del Libano Bashir Gemayel, insieme ad altri 26 dirigenti falangisti. L’attentato portò a scontri che costrinsero a intervenire le forze multinazionali, non sotto la bandiera dell’Onu, a causa dell’opposizione della Russia. Nacque una missione internazionale cui parteciparono Stati Uniti, Francia e Italia (cui si aggiunse in seguito il Regno Unito).

L’esercito italiano sbarcò a Beirut il 24 settembre al comando del generale Franco Angioni. Per la prima volta l’esercito italiano veniva inviato oltre i confini nazionali dopo la Seconda Guerra Mondiale. Il governo italiano dotò l’esercito di mezzi bianchi, in modo da evidenziare la missione di pace internazionale. Il compito di mantenere la pace (peace keeping), in particolare proteggere la popolazione palestinese nei campi di Sabra, Shatila e Burj el Barajneh, durò diciotto mesi. Dall’agosto 1983 la guerra civile infuriò sempre più in Libano. Il 23 ottobre dello stesso anno due terribili esplosioni colpirono il Comando statunitense e poco più tardi quello francese: si contarono 241 morti tra gli americani e 56 tra i francesi.

A distanza di più di trent’anni Franco Bettolini, all’epoca diciannovenne bersagliere partito per la spedizione, affida i suoi ricordi alla scrittrice Marina Crescenti. Nasce così Postazione 23. I miei 100 giorni a Beirut (Ares, 2019), un testo ibrido, che ha la forza del documento storico, la freschezza del romanzo raccontato in presa diretta, la forma e la semplicità del diario steso con la psicologia di un ragazzo di leva di diciannove anni. Il racconto, steso in ordine cronologico dall’agosto 1981 al gennaio 1984, è strutturato in due parti: la formazione e Lebanon.

Prima della partenza, dinanzi alle parole del generale Angioni, pronunciate in un’intervista con il giornalista Enzo Biagi, Bettolini comprende che

è un bene avere paura: la paura ti salva! L’uomo non è coraggioso perché non sente paura: chi dice di non averne è un bugiardo. Un vigliacco! L’uomo coraggioso è quello che ammette di avere paura e […] la guarda in faccia e la sfrutta per prendere la decisione migliore: la paura è una risorsa, a cui attingere nei momenti più pericolosi.

Ora, finalmente, Bettolini non ha più paura di avere paura. Atterrato a Beirut, prende possesso della Postazione 23 a tutela del campo di Shatila, accanto alla fossa comune. Vede devastazione ovunque e, inconfondibile, sente «il puzzo della morte». Ha l’impressione di essere disceso agli inferi:

Donne, bambini e vecchi, sporchi e impolverati, taluni mutilati, coperti solo di stracci stracciati da bestie più bestie delle bestie! Povera gente che vede in noi i loro salvatori e che ci punta addosso sguardi di disperazione e di richiesta di aiuto. […] E dappertutto macerie, palazzi sventrati, strade spaccate, che svirgolano in un panorama di distruzione che ha perduto ogni dignità. […] Ogni cosa attorno, immobile o in movimento, parla di morte. Sa di pericolo. […] È l’odore della carne viva […] sparsa in ogni angolo di questa città-cimitero che puzza di marcio.

In breve tempo, il contingente italiano instaura un ottimo rapporto con la popolazione palestinese e con quella libanese, stimato e apprezzato da americani e francesi per il delicato compito di gestire migliaia di profughi e di mantenere bassa la violenza, all’interno di una polveriera.

All’alba del 23 ottobre avvengono, una dopo l’altra, due terribili esplosioni che provocano centinaia di morti tra i Marines e tra i soldati francesi della Legione Straniera. Al comando italiano attendono l’attacco da un momento all’altro. Sono momenti di panico e di caos, cui subentrano poco più tardi «un’organizzazione perfetta, pronta ed efficiente» e il «bisogno impellente di aiutare, salvare, donare speranza a chi non è stato fortunato». Memorabile è la scena del ritrovamento di un soldato francese vivo sotto una massa di macerie. La gioia è immensa dinanzi alla possibilità di salvare la vita al francese. Ma le sue condizioni sono disperate, i suoi occhi implorano aiuto e salvezza. Racconta Bettolini:

quando torno a guardarlo, mi sta guardando con gli occhi di salvarlo. Mi sta implorando di non farlo morire! Sono impotente di fronte allo scempio a cui assisto solo col corpo; mente e anima sono volate altrove. Posso solo abbassarmi all’altezza del suo viso e ascoltare ciò che le sue labbra, muovendosi appena, vogliono dirmi. «Sauve moi». […] Me lo porto al petto e dondolo avanti e indietro, mentre lui rantola tra le mie braccia. […] «Sono qui» […] «Ti porto in ospedale […]. Non ti affaticare. Ti giuro che ce la faremo». […] Di colpo, spalanca la bocca e inchioda due occhi sbarrati nei miei. Inerme di fronte alla morte che avanza, ascolto il suo ultimo respiro che esala contro il mio collo, è un fruscio caldo e leggero sulla mia pelle sudicia. Patrick muore tra le mie braccia. […] Lo stringo a me! La sua testa è contro il mio petto! Lo cullo fra le braccia piangendo di un pianto inconsolabile. Mi sento solo, anche se intorno a me ci sono altre centinaia di persone. Mormoro: «Addio Patrick».

Chi riesce solo ad immaginarsi gli atroci istanti di quel soldato orribilmente ferito, ma ancor vivo, posto di fronte ad un destino ineluttabile, con l’unico conforto di un soldato sconosciuto, che in quel momento diventa il compagno nel momento del trapasso? La solidarietà, la fratellanza, il sacrificio per uno sconosciuto che sta morendo, che in pochi secondi è divenuto tuo compagno, sgorgano spontaneamente dal cuore dell’uomo, come se qualsiasi maschera, ipocrisia, ostentazione di falso coraggio si dissolvessero dinanzi alle atrocità e alle violenze.

A distanza di migliaia di chilometri, Bettolini sente la vicinanza delle persone che sono determinanti nella sua vita. Il padre gli ha sempre insegnato «a tirare fuori il positivo da tutto». «Ma cosa c’è di positivo in quello che ho visto stanotte» si chiede Bettolini «e che non dimenticherò mai tutta la vita?». Il bersagliere dialoga a distanza col papà:

«Ragiona! Cosa hai imparato stanotte?». «Papà, credo... cameratismo e coraggio». «E poi?». «Mantenere il controllo, […] umiltà, mai sfrontatezza». […] «Bene, continua, figlio mio». «La paura deve essere buona consigliera. Stanotte, è diventata un valore». […] «Avanti». «Ho imparato cos’è la serenità, papà. È quella cosa che provo quando sono con te». «Avanti!». «Ho capito di essere in grado di provare tanta passione; stanotte mi è servita per tirare fuori tutte le mie energie. Mi è servita per tirare fuori Patrick, papà…».

Nei cento giorni a Beirut, Franco Bettolini ha imparato che «non si fa molta strada con la falsità»; ha scoperto un’emozione che non aveva mai provato prima, a cui può ora dare nome di fraternità. Si è creato un legame che non potrà mai essere distrutto:

… ci aiutiamo l’un l’altro. Siamo tante paia di occhi che guardano in faccia le profondità dell’orrore, nell’unica convinzione possibile; siamo una cosa sola. Se capita a te, sta capitando a me.