Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
lo stato della fede

Censis: i cattolici italiani, poco praticanti e molto confusi

Emergono luci e ombre nel rapporto commissionato dalla Cei. Il 70% si riconosce nel cattolicesimo senza saperne granché. La Chiesa è percepita come una Ong, ma per placare la sete di spiritualità si ricorre al fai-da-te.

Ecclesia 12_11_2024
Claudio Furlan/LaPresse

La Conferenza episcopale italiana ha commissionato al Censis un rapporto sullo stato di salute della fede in Italia, in vista dell’Assemblea Sinodale che si svolgerà dal 15 al 17 novembre prossimi. Molte ombre, ma anche qualche luce significativa.
Su un campione di mille adulti, il 71,1% della popolazione si dice cattolico. Freniamo gli entusiasmi. Infatti solo il 15,3% si dichiara praticante contro il 20,9% dei «cattolici non praticanti». Come dirsi calciatore non praticante. Un ossimoro. Inoltre, in merito a quel 15% di cattolici della domenica, bisognerebbe verificare se sposano idee contrarie o consone alla dottrina della Chiesa – dato questo che non è stato indagato dalla ricerca – altrimenti sarebbe come dirsi ambientalista ed essere a favore dell’inquinamento. Propendiamo più per l’ipotesi cattolico praticante, ma non credente nella dottrina. Infatti ed ad esempio, per il 60,8% dei praticanti la Chiesa dovrebbe adattarsi alla nuova sensibilità contemporanea. Insomma, dovrebbe aggiornarsi, come si dice oggi.

Ciò detto, il 71% degli italiani si dice cattolico perché la maggioranza di questa percentuale semplicemente ha in sé un vaghissimo senso religioso e lo qualifica come cattolico perché la religione di riferimento in Italia è ancora il cattolicesimo. Se quella stessa quota fosse nata in India, il 71% si sarebbe dichiarato induista. Questa interpretazione riceve conforto da un altro dato: il 79,8% del campione afferma che la sua base culturale è cattolica. Insomma se il sig. Rossi deve indicare un proprio riferimento religioso è ovvio che citi il cattolicesimo. C’è poi da domandarsi di che pasta sia fatta questa cultura cattolica se ha portato all’ateismo pratico diffuso e a condotte morali antitetiche all’insegnamento della Chiesa.

A confortare questa lettura in cui l’autentica fede cattolica poco o nulla c’entra con il sentirsi “cattolico” c’è un altro dato: circa metà di coloro che vanno a messa saltuariamente o che non ci vanno mai (55,8% del campione) lo fanno perché vivono «interiormente» la fede. Si tratta della famigerata fede fai da te, costruita secondo proprie convinzioni, proprie esigenze, propri principi. È l’individualismo nemmeno religioso e nemmeno spirituale, ma banalmente mentale. Il riferimento all’appartenenza al cattolicesimo è quindi fallace in buona parte dei casi.

Questa conclusione trova conferma anche nella seguente percentuale: il 66% dice di pregare, ma se poi andiamo a vedere perché si prega si comprende bene di quale sostanza sia fatta questa preghiera. Il 39,4% prega quando sperimenta un’emozione, il 33,5%, in particolare, quando ha paura e vuole chiedere aiuto. La preghiera, quindi, diventa una invocazione ad un Altro molto sentimentale, molto emozionale. La preghiera si scolora perciò in un moto del cuore e delle viscere indirizzato verso un generico cielo, che può recitarsi anche senza appartenenza religiosa. Dirsi cattolici è quindi sganciato anche dalle pratiche spirituali.

Rimane valida la conclusione che vede l’appartenenza al cattolicesimo come fallace anche se andiamo a leggere il dato secondo cui 6 intervistati su 10, in modalità diverse, si riconoscono nella Chiesa cattolica, sebbene la credibilità della stessa è minata per 7 su 10 intervistati soprattutto dagli scandali legati agli abusi sessuali. Il riconoscimento, più o meno accentuato, probabilmente è dettato dal fatto che la Chiesa è percepita come una cooperativa di servizi sociali per i poveri, i drogati, i senzatetto, i disoccupati, gli immigrati, insomma gli ultimi. Il dato dottrinale è ormai tramontato nella coscienza collettiva perché ben prima tramontato nella coscienza ecclesiale. Il 45,1% tra coloro i quali invece non si riconoscono nella barca di Pietro afferma che la presa di distanze è motivata dal fatto che la Chiesa appare una istituzione troppo vecchia. Percentuale che certamente qualche vescovo o cardinale assai zelante userà al fine di accelerare ancor di più in direzione delle riforme e della conseguente estinzione del popolo di Dio.

Quindi plauso alla Chiesa perché soddisfa i bisogni materiali, ma ognuno si fabbrica la fede che vuole fuori dalla Chiesa proprio perché i temi spirituali sono stati dimenticati da preti e suore, tutti intenti a distribuire vestiti e non grazia santificante. Non rimane quindi che pensar da sé al senso ultimo delle cose – posto che ci si pensi – oppure rivolgersi ad uno psicologo. Infatti 4 intervistati su 10 non andrebbero mai da un prete, numero a cui si aggiungono 2 su 10 che sono così interessati all’argomento che manco hanno risposto. Però, è doveroso sottolinearlo, 4 su 10 andrebbero da un sacerdote per farsi consigliare. E con i tempi che corrono il dato è prezioso.

Il presidente del Censis, Giuseppe De Rita, sposa nella sostanza questa nostra interpretazione che vede una Chiesa china sui bisogni materiali, ma che non soddisfa quelli più profondi: «La zona grigia nella Chiesa di oggi […] è il risultato dell’individualismo imperante, certo, ma anche di una Chiesa che fatica ad indicare un “oltre”, la Chiesa ha sempre aiutato la società italiana ad andare oltre, deve ritrovare questa sua capacità, perché una Chiesa solo orizzontale non intercetta chi è ubriaco di individualismo, perché a costoro non basta sostituire l’Io con un “noi”, hanno bisogno di un oltre, hanno bisogno di andare oltre l’io». La Chiesa è schiacciata sull’immanente, ma il suo primo compito riguarda il trascendente. Alle persone non bastano il pane e l’amicizia – ossia la soddisfazione dei bisogni primari e della socialità, due tasti su cui la Chiesa continua a battere – le persone hanno sete di Dio. E in merito alla strada per trovarlo la Chiesa latita nella sua pastorale.

Ma facevamo cenno anche ad alcune luci significative. Il 58% del campione crede che ci sia un qualcosa dopo la morte. Guardando il bicchiere mezzo vuoto ciò significa che metà degli italiani non ci crede. Ma bisogna riconoscere che il bicchiere mezzo pieno è una realtà positivamente inaspettata. Così come è inaspettato questo dato: il 61,7% di coloro che credono che ci sia un Aldilà ritiene poi che ci sarà un premio per i buoni e un castigo per i cattivi. Insomma un quarto della popolazione italiana pensa che ci sia un giudizio dopo la morte. In controtendenza con l’orientamento attuale della Chiesa che garantisce premi per tutti dopo morti, come in alcune pesche di beneficenza in cui si vince sempre.

Altra luce molto sorprendente: il 43,9% dei praticanti dice di apprezzare «i bei riti di un tempo». Quindi non solo la messa in vetus ordo, sconosciuta dalla quasi totalità dei praticanti, ma anche quella in novus celebrata come Dio comanda e molti altri riti ormai scomparsi (processione del Corpus Domini, candelora, etc.). Segno, tra l’altro, di quella sete di “oltre”, cioè di spiritualità e sacralità, ricordata dal presidente del Censis. È vero, parliamo solo di poco più del 6% della popolazione, ma fuor di percentuale significa circa 3 milioni e mezzo di credenti indietristi. Quasi una persona su due che va a messa alla domenica. Non poco. Chi lo avrebbe mai detto?



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