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RICERCA IMMORALE

Cellule fetali, la differenza Trump-Biden. E un dovere…

Prima che Trump intervenisse per mettere un freno all’uso di tessuti di bambini abortiti, si facevano sperimentazioni sui “topi umanizzati”. Poi Biden ha annullato le misure del suo predecessore, rifinanziando le ricerche basate sulle cellule fetali. Una barbarie divenuta sistema che riguarda tante terapie, vaccini compresi, e che non può essere liquidata dal punto di vista etico.

Vita e bioetica 08_09_2021 English Español

«Un esperto scienziato del laboratorio di ricerca biomedica del Governo è stato ostacolato nel suo impegno per condurre esperimenti su possibili cure per il nuovo Coronavirus, a causa delle restrizioni poste dall’amministrazione di Trump alle ricerche con tessutali fetali umani».

Era questo l’attacco di un articolo di Amy Goldstein sul Washington Post del 18 marzo 2020. L’immunologo Kim Hasenkrug dei National Institutes of Health’s-Rocky Mountain Laboratories, nel Montana, aveva chiesto ai suoi superiori di sospendere questo divieto in ragione della pandemia da poco esplosa. Qualche mese prima, diversi ricercatori avevano scoperto la potenzialità dei “topi umanizzati” (humanized mice): topi nei quali vengono trapiantate cellule di feti volontariamente abortiti, che, nel caso di quella ricerca, si sviluppano in polmoni; questi topi vengono quindi infettati dal virus e sottoposti poi a cure sperimentali. Inclusi i vaccini, che all’epoca non erano ancora disponibili.

Questo era l’andazzo normale della ricerca medica, almeno prima che Trump intervenisse per mettere un freno a questo tipo di barbarie, nascosta sotto un camice bianco. Nel 2019, l’amministrazione dell’ex presidente degli Stati Uniti aveva infatti messo fine a nuove sperimentazioni condotte utilizzando tessuti provenienti da bambini abortiti, provocando, come c’era da aspettarsi, un polverone nel mondo politico e scientifico. Per la precisione, Trump aveva congelato i finanziamenti destinati a quel filone di ricerca interna dei National Institutes of Health che ha a che fare con tessuti fetali ottenuti di recente da aborti; nel contempo, The Donald aveva vincolato le richieste di fondi provenienti da enti esterni ad una procedura di revisione da parte dell’Ethics Advisory Board, che secondo i contestatori contava nelle sue file troppi componenti anti-abortisti. Poi è arrivata “provvidenzialmente” la pandemia, occasione perfetta per gettare le colpe di morti e malati sul medievale Trump, reo di aver fermato la ricerca e messo in pericolo la salute di milioni di persone.

Trecentoventidue milioni di malattie evitate, dal 1994 al 2013, grazie ai vaccini sperimentati su tessuti fetali, prevenzione di 732 mila morti premature, oltre mille miliardi di costi sociali tagliati, secondo i Centers for Disease Control and Prevention americani (vedi qui): sarebbero questi i numeri dei benefici dell’utilizzo di materiale biologico proveniente dai feti abortiti nella ricerca e nella farmaceutica. Presunti o reali che siano, non è difficile capire dove facciano pendere il piatto della bilancia, rispetto a “solamente” qualche decina o centinaio di bambini fatti a pezzi, agli occhi di chi vede ormai il disumano principio mors tua, vita mea come sinonimo di realismo, progresso e salute.

A due mesi esatti dalla discussa elezione di Joe Biden, il 7 gennaio 2021, decine di associazioni si erano premurate di scrivere al neoeletto presidente (vedi qui) per revocare la decisione del Department of Health and Human Services, che proibiva la ricerca utilizzando tessuti umani fetali. E già il 16 aprile, la direzione dei National Institutes of Health (vedi qui e qui) comunicava l’annullamento delle restrizioni stabilite nel 2019. La decisione ha decisamente contrariato il movimento pro-life, che durante l’amministrazione di Trump aveva acquistato nuovo vigore; mentre invece ha trovato il plauso di numerosi istituti di ricerca, come l’International Society for Stem Cell Research (ISSCR), la più grande organizzazione mondiale di ricerca sulle cellule staminali, che in un comunicato mostra quanto ormai quella ricerca, che trova la sua causa essendi nella pratica abortiva, sia pressoché ubiqua (vedi qui): «Il tessuto fetale è uno strumento di ricerca decisivo, che ha contribuito a numerosi progressi scientifici e salvato milioni di vite. È stato determinante per lo sviluppo di vaccini per la poliomielite, la rosolia, il morbillo, la varicella e la rabbia. Rimane essenziale per creare dei modelli del sistema immunitario umano per studiare le infezioni virali da HIV, Zika, Coronavirus e altri virus. Il tessuto fetale è importante per il progresso della ricerca sulle cellule staminali e della medicina rigenerativa a motivo del suo utilizzo come materiale di riferimento per la convalida di modelli di sviluppo umano e organi, basati sulle cellule staminali».

Il problema dei tessuti provenienti da bambini abortiti è dunque una realtà divenuta sistema, oltre che una rete incredibile di affari. Il presente e il futuro appaiono segnati: i vaccini e le nuove terapie sono marchiate ab origine dall’aborto e dallo smembramento del feto; per non parlare dell’obbrobrio dei topi umanizzati e delle chimere. Forse sarebbe il caso, da un punto di vista etico, di riconsiderare la categoria della cooperazione remota, che in un contesto del genere appare sempre meno adeguata: che ci piaccia o no, siamo parte di un sistema che vive di domanda e offerta. E noi siamo i consumatori, l’ultima ruota del carro dei destinatari, certo, ma pur sempre fondamentale perché il “mercato” stia in piedi.