Cavalleri e quel «grande salto» che attende tutti noi
Lo storico direttore delle Edizioni Ares annuncia ad Avvenire che secondo i medici gli restano nove settimane di vita. In poche e dense righe si congeda dai lettori per immergersi nella «preparazione immediata» all'eternità, offrendo una involontaria lezione sul vivere in vista del fine e della fine, perché il suo destino è anche il nostro.
- MARIO IL MATTO CI SVELA CHE LA BELLEZZA È NOSTALGIA DI DIO di Andrea Zambrano
A prima vista fa venire un colpo la lettera con cui Cesare Cavalleri si “congeda” dal direttore e dai lettori di Avvenire, prima ancora di leggerla. Alle prime righe il colpo aumenta di intensità, e non solo perché lo storico direttore delle Edizioni Ares e della rivista Studi Cattolici annuncia nientemento che la propria morte, e persino a breve termine, ma soprattutto perché – senza volerlo – parla anche di noi, altrettanto soggetti a «sora nostra morte corporale, da la quale nullu homo vivente pò scappare».
«I medici mi hanno graziosamente comunicato che mi restano 9 settimane di vita»: Cavalleri va dritto al punto senza preamboli. «Non immaginavo simile conclusione, ma prendo volentieri atto e mi tuffo nella preparazione immediata al grande salto (quella remota è iniziata, con alti e bassi, nell’adolescenza)». Poche righe, prima di ripercorrere la sua collaborazione con Avvenire, in cui spiccano parole accuratamente pesate – e non potrebbe essere diversamente – quali «graziosamente», «volentieri», «grande salto», «preparazione prossima» e persino «remota». Ma perché possano esplodere in tutta la loro pregnanza, è bene operare un cambio di prospettiva invece di limitarsi superficialmente a un “necrologio” anticipato.
Innanzitutto, parliamo “a Cavalleri vivo” il quale ci sta impartendo una (involontaria) lezione. E ne parliamo al presente. La vera notizia, infatti, non è che lui morirà, ma che tutti moriremo, anzi che tutti siamo “morenti” (compresi chi scrive e chi legge). E allora cambia di segno e di senso anche la solidarietà che suscita, ben diversa da quella pur umana e legittima verso chi sta per lasciare questo mondo. Ci riscopriamo solidali in quanto uniti dalla comune direzione di marcia verso una meta su cui talvolta sembra illecito porsi domande.
Colpisce innanzitutto il parlare direttamente e liberamente di un tema troppo spesso censurato: un altro segno della libertà del personaggio. Oggi la morte è tabù, come ha scritto e ripetuto Vittorio Messori, non se ne può, anzi non se ne deve parlare in una società che dimenticando l’eternità vive ripiegata in un eterno presente. Non conoscendo la “scadenza” (termine che gli inglesi chiamano, non a caso, deadline) coltiviamo l’illusione di vivere all’infinito, salvo quando la presunzione di “eternità terrena” viene bruscamente interrotta da una malattia o da un sinistro. E ci trova impreparati, come qualcosa che non avevamo assolutamente preventivato, eppure – paradossalmente – è l’unico evento di cui possiamo avere assoluta certezza.
In passato la morte si guardava faccia a faccia (non per questo senza provarne timore), ed era più facile che le generazioni più giovani vedessero quelle precedenti passar loro il testimone, anche nel momento estremo. Morendo in esilio a soli 34 anni l’ultimo imperatore d’Austria, il beato Carlo, fece chiamare al suo capezzale il primogenito Otto: un momento doloroso, ma necessario perché il piccolo vedesse come si muore. Fra Trecento e Quattrocento addirittura la si trasformava in capolavoro dipinto: è il tema iconografico del Trionfo della Morte, trionfo bilanciato però dal Giudizio dove il «Rex tremendae maiestatis» cantato dal Dies irae è al tempo stesso invocato come «fons pietatis».
Cavalleri ci perdonerà se cogliamo anche una leggera vena del suo tipico humour in quelle righe che – ribadiamo – costituiscono un promemoria per noi non meno che per lui. E lo diciamo con ammirazione, perché non è da tutti commentare qualcosa del genere con un «mi hanno graziosamente comunicato» e «prendo volentieri atto». Ma la chiave sta proprio in quella preparazione, «immediata» e «remota» cui Cavalleri fa riferimento, dicendo che è iniziata «fin dall’adolescenza».
Per quanto suoni male alle orecchie contemporanee, vi è tutta una tradizione di preparazione alla “buona morte”, forse dimenticata ma mai abolita da nessuno, valida per tutti, santi e peccatori, che ha i suoi principali patroni in San Giuseppe e in San Disma, il “buon ladrone”, che morì con lo sguardo rivolto al Signore crocifisso insieme a lui. Josemaría Escrivá, un santo molto caro a Cavalleri, ripeteva «quel verso dell'inno eucaristico: Peto quod petivit latro poenitens, e ogni volta mi commuovo: chiedere come ha chiesto il ladrone pentito! Egli riconobbe di meritare, sì, quel castigo atroce... E con una parola rubò il cuore a Cristo e si aprì le porte del Cielo» (Via Crucis, 12).
Ma se il ladrone ci arrivò last minute, San Josemaría raccomandava di pensarci «almeno una volta al giorno» «per vedere in questa luce gli avvenimenti di ogni giorno» (Forgia, 1038). Il fondatore dell’Opus Dei assicurava «una buona esperienza della pace che questa considerazione produce». Una preparazione che consiste, innanzitutto, nel tener presenti la fine e con essa il fine dell’esistenza terrena, anche quando dovesse riservarci ancora lunghi anni o decenni. O almeno provarci, con la speranza, quando verrà l’ora fatidica, di accoglierla «graziosamente» e «prenderne atto volentieri», come fa Cavalleri mettendoci quasi in soggezione poiché ci vediamo più fragili e impreparati noi rispetto a lui che anche stavolta non sembra perdere quell’aplomb un po’ british che da sempre lo contraddistingue.
Allora non diciamo ancora “addio” (non è il momento), ma: chapeau, Cesare, che in poche righe ci insegni a lasciare questo mondo con fede e persino con stile!