L'ANNIVERSARIO
Cassius Clay è ancora sul ring
La leggenda della boxe ha compiuto 70 anni. In una società di uomini incapaci di sacrificarsi, lui continua a combattere con coraggio la sua malattia. Ecco perchè abbiamo bisogno ancora di lui e del pugilato.
Attualità
21_01_2012
Mohamed Alì ha compiuto settant'anni. Non credo, sinceramente, che sia stato “il migliore”, come egli stesso affermava e come tanti credono; ma sicuramente, con il suo stile dentro e fuori dal ring, ha cambiato il pugilato. Il suo incontro truccato del 1964 (quello del “pugno fantasma”), con il quale vinse per la prima volta il titolo mondiale con il nome di Cassius Clay, ha cominciato un'era, il periodo d'oro dei pesi massimi. Il giorno dopo l'incontro, si convertì all'Islam e cambiò il suo nome in Mohamed Alì.
Nel 1967 si rifiutò di combattere in Vietnam e questa presa di posizione gli costò il ritiro della licenza. Nel 1971 tornò a combattere e nello stesso anno incontrò per la prima volta, in un incontro davvero emozionante (“L'incontro del secolo”), uno dei suoi più temibili avversari, “smokin'” Joe Frazier. Il brevilineo Frazier dominò l'incontro e all'ultimo round, con il suo potentissimo gancio sinistro, mise addirittura al tappeto Alì, che perse l'incontro ai punti. Nel 1974 Alì incontrò di nuovo Frazier, che questa volta fu sconfitto ai punti. Nello stesso anno Alì riconquistò il titolo contro George Foreman in un epico incontro disputato a Kinshasa, in zaire (“The roumble in the joungle”). Alì si appoggiò alle corde e si chiuse in difesa, subendo per otto riprese i terribili colpi del potentissimo Foreman; quando si accorse che l'avversario era stremato cominciò a colpirlo facendolo finire al tappeto e chiudendo così l'incontro. La vittoria di Alì fu più strategica e psicologica che tecnica, ma resta comunque una pagina straordinaria della storia del pugilato.
Nel 1975 Alì incrociò i guantoni con Frazier per la terza volta, per stabilire definitivamente chi dei due fosse il migliore. L'incontro fu organizzato nelle Filippine, e fu intitolato “Thrilla in Manila”. I due campioni si affrontarono senza risparmio, tanto che alla fine della penultima ripresa, complici il caldo e l'umidità, erano stremati. L'allenatore di Frazier decise di ritirare il suo atleta, temendo seriamente per la sua salute, consegnando così la vittoria ad Alì. Il vincitore affermò in seguito che probabilmente non sarebbe stato in grado di affrontare un ulteriore round se Frazier non si fosse ritirato. Alì si ritirò la prima volta nel 1978, dopo la rivincita con Leon Spinks. Ritornò nel 1980 per un triste incontro contro il suo ex sparring partner, Larry Holmes; ormai il campione non era più in grado di affrontare avversari degni della sua carriera, e perse l'incontro per getto della spugna. Si ritirò definitivamente l'anno seguente, dopo l'incontro con Trevor Berbick. Durante questo match Alì manifestò i primi sintomi della sindrome di Parkinson, che gli fu diagnosticato nel 1984.
Con il ritiro di Alì si chiude l'epoca d'oro dei pesi massimi, affollata di pugili eccelsi come Alì, Frazier, Foreman, Norton, Lyle. E comincia l'era di Mike Tyson, campione senza rivali dalle doti fisiche eccezionali e dalla tecnica sopraffina, passato però ingiustamente alla storia come selvaggio picchiatore (come se un picchiatore potesse resistere sul ring con dei pugili professionisti per più di qualche secondo). Nel 1996 commosse il mondo apparendo, scosso dai tremiti della malattia, sugli schermi televisivi come ultimo tedoforo alle olimpiadi di Atlanta. Mohamed Alì era fisicamente molto dotato: alto un metro e novantuno, aveva braccia lunghissime (lo si può vedere dalla foto di copertina dell'ultimo libro di Rino Cammilleri, Come fu che divenni Cattolico, Credente, Praticante, che vi è ritratto con il pugile) ma soprattutto agilità e velocità assolutamente ignote nel mondo dei massimi. Riuscì a costruire su queste peculiarità un modo di combattere assolutamente innovativo per quell'epoca, nella quale i pesi massimi erano dei colossi dotati di forza sovrumana ma statici e lenti rispetto alle altre categorie (si pensi a Louis, Marciano, Liston).
Alì danzava, letteralmente, attorno all'avversario, con quel tipico passo che fu imitato persino da Bruce Lee nell'elaborazione del suo Jeet Kune Do. Con quella danza, e con una bocca che sputava frasi irritanti per tutta la durata dell'incontro, ogni match diventava per l'avversario una tortura psicologica. Non possedeva, in realtà, una grande potenza, né una grande varietà di colpi: usava in continuazione il jab che colpiva senza tregua il volto dell'avversario senza che questo riuscisse ad organizzare una vera azione. Utilizzava anche dei trucchetti di dirty boxing: ad esempio, i suoi ganci erano in realtà sberloni, e ogni volta che l'avversario riusciva ad “entrare” gli afferrava la testa e le braccia impedendogli di boxare. In questo modo gli incontri si trasformavano in una tortura (anche psicologica) da parte di pugili anche ben dotati che non riuscivano ad essere efficaci, mentre lui li punzecchiava (anche psicologicamente) per tutto l'incontro.
Le sue provocazioni, le sue smargiassate, i suoi proclami, che hanno contribuito a far nascere la leggenda del “migliore”, hanno senz'altro aiutato a creare il “personaggio” e a spettacolarizzare il pugilato, rendendolo molto popolare: “Io sono il più grande, l'ho detto prima di sapere di esserlo"; “È difficile essere umile se sei grande come lo sono io”; “Sono talmente veloce che la scorsa notte ho spento l'interruttore della luce nella mia stanza di hotel ed ero nel letto prima che la stanza fosse buia”; “È la mancanza di fede che rende le persone paurose di accettare una sfida, e io ho sempre avuto fede: infatti, credo in me”; “Sono affascinante, veloce, praticamente imbattibile”; “Joe Frazier è troppo brutto per essere campione. Joe Frazier è troppo stupido per essere campione. Il campione dei massimi deve essere intelligente e grazioso come me”; “Quest'uomo [Sonny Liston] è talmente brutto che quando suda il sudore gli va in dietro sulla testa, per non vedere la sua faccia”; “la mano non può colpire quello che l'occhio non può vedere. Vola come una farfalla e pungi come un'ape. Combatti, ragazzo, combatti!”. Come ho scritto, Alì ha cambiato tecnicamente il pugilato e l'ha trasformato in uno sport presentabile in società, in grado di appassionare il grande pubblico; l'ha fatto uscire da antri fumosi e mal frequentati, trasformando gli incontri di punta in avvenimenti mediatici planetari (complice, va riconosciuto, il genio manageriale di Don King). Anche per questo, al di là dei meriti sportivi talvolta mitizzati, egli è il pugile più conosciuto ed ammirato dal grande pubblico ed è giusto, quindi, ricordare il suo settantesimo compleanno.
È giusto anche per il coraggio, tutto pugilistico, con il quale ha affrontato ed affronta la sua malattia, non nascondendosi né vergognandosi; continuando anzi ad affermare di essere il migliore non nonostante ma proprio grazie alla malattia, forse il suo avversario più temibile di sempre. Perché – ed è questo il grande insegnamento della boxe, metafora della vita – non importa se si vince o se si perde, ma importa combattere: affrontare gli ostacoli con coraggio, tenacia, sopportando il dolore e la fatica. Perché sul ring non si combatte contro un avversario, che comunque non è mai nemico, verso il quale non si prova odio, ma compassione e rispetto; che si abbraccia, alla fine dell'incontro, come un fratello, anzi: che è diventato fratello proprio grazie al combattimento. Non si combatte, dunque, contro l'avversario, ma contro se stessi: contro la paura, contro i limiti che ci siamo auto-imposti, contro il dolore.
Lo dimostra proprio un incontro minore combattuto nel 1975 da Alì contro Chuck Wepner, un pugile mediocre. L'incontro merita di essere ricordato non solo per la commuovente tenacia di Wepner (che mandò addirittura al tappeto Alì), ma anche perché questo incontro ispirò a Sylvester Stallone la sceneggiatura del più importante film sul pugilato, Rocky. La saga di Rocky si è conclusa con il sesto film esattamente come era cominciata, ossia con una sconfitta del protagonista; che però viene acclamato dal pubblico. Il significato del pugilato sta proprio in questa apparente contraddizione. Lo esprime un dialogo, tratto dall'ultimo film della serie, tra Rocky Balboa e il figlio Robert: «Hai permesso al primo fesso che arrivava di farti dire che non eri bravo. Sono cresciute le difficoltà, ti sei messo alla ricerca del colpevole e l'hai trovato in un'ombra... Ora ti dirò una cosa scontata: guarda che il mondo non è tutto rose e fiori, è davvero un postaccio misero e sporco e per quanto forte tu possa essere, se glielo permetti ti mette in ginocchio e ti lascia senza niente per sempre. Né io, né tu, nessuno può colpire duro come fa la vita, perciò andando avanti non è importante come colpisci, l'importante è come sai resistere ai colpi, come incassi e se finisci al tappeto hai la forza di rialzarti... così sei un vincente!».
La nostra società, vittima dell'utopia politicamente corretta, confonde la forza con la violenza, rifiuta lo scontro e la competizione. Persino se limitate da norme sportive e, in modo ancora più vincolante, da un codice d'onore. S'illude, in questo modo, di aver eliminato dal mondo il male, la violenza, la sofferenza; non accorgendosi di aver, al contrario, eliminato le regole e l'onore; di aver liberato i peggiori mostri dal sottosuolo nel quale erano stati rinchiusi da quelle regole e da quel codice d'onore. E quando, come è inevitabile, ha bisogno di uomini decisi, forti, risoluti, capaci di soffrire e di rischiare, di eroi, insomma, si accorge che non ce ne sono più; che i suoi figli sono bambini viziati, incapaci di sacrificarsi per gli altri, di alzarsi contro le ingiustizie, di lottare per il bene, di affrontare il male. No.
Noi abbiamo bisogno del pugilato. Che non è una esibizione di ferocia e forza bruta, come sostengono molti, bensì delle migliori doti umane. Per questo i francesi la chiamavano “la nobile arte”; e gli americani the sweet science, “la dolce scienza”. Noi abbiamo bisogno di pugili. Abbiamo bisogno di uomini come Mohamed Alì. Ne abbiamo bisogno per sapere che agli uomini è possibile essere eroi. Il pugilato, ha detto un giorno George Foreman, è lo sport al quale ogni altro vorrebbe somigliare. Forse è per questo che san Paolo ha utilizzato una metafora pugilistica: «Faccio pugilato. Ma non come chi batte l'aria» (1 Cor 26). Come chi combatte veramente. Come ha combattuto e combatte Mohamed Alì.