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il caso

Perché il terzo mandato rischia di suicidare il centrodestra

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Il centrodestra rischia grosso: senza il terzo mandato per i governatori uscenti, la coalizione potrebbe riuscire forse a salvare solo il Veneto, ma perderebbe molte altre regioni. E pregiudicherebbe negli anni successivi la guida del Friuli e della Lombardia. 

Editoriali 02_07_2025

La polemica sul terzo mandato dei presidenti di regione sta assumendo una rilevanza politica sempre più centrale, diventando uno dei nodi cruciali del dibattito nazionale in vista delle elezioni regionali d’autunno, quando ben 17 milioni di italiani saranno chiamati alle urne in una tornata che potrebbe anticipare gli equilibri delle prossime elezioni politiche.

Il tema non è solo giuridico, ma profondamente politico, e riguarda in particolare il futuro del centrodestra, che si trova stretto tra le ambizioni delle sue componenti interne e la necessità di mantenere il controllo di regioni chiave. Un sondaggio recente, pubblicato lunedì su diversi giornali, ha rivelato un dato sorprendente: la maggioranza degli italiani è favorevole al terzo mandato, riconoscendone implicitamente il valore come strumento per garantire la continuità del buon governo.

Un dato che colpisce è la trasversalità del consenso: molti elettori del Partito Democratico, ad esempio, dichiarano che voterebbero senza esitazioni Luca Zaia, mentre numerosi elettori del centrodestra si esprimerebbero a favore di Vincenzo De Luca. Questa disponibilità a superare le appartenenze ideologiche pur di riconfermare amministratori considerati efficaci riflette una tendenza sempre più marcata verso un voto pragmatico e legato ai territori.

In questo scenario, il centrodestra rischia grosso: senza il terzo mandato per i governatori uscenti, la coalizione potrebbe riuscire forse a salvare solo il Veneto, ma perderebbe con ogni probabilità la Puglia, la Toscana, la Campania, la Valle d'Aosta e forse anche le Marche. Con l’impossibilità di ricandidare figure forti e radicate come Zaia o De Luca, la competizione regionale si complicherebbe per tutti gli schieramenti, ma penalizzerebbe soprattutto la maggioranza di governo, che si troverebbe a dover affrontare la tornata elettorale più delicata da quando è al potere. Anche perché, il divieto del terzo mandato penalizzerebbe negli anni successivi i governatori leghisti del Friuli (Massimiliano Fedriga) e della Lombardia (Attilio Fontana).

Al contrario, con la possibilità del terzo mandato, lo scenario si ribalterebbe: il centrodestra potrebbe essere competitivo persino in Campania, sfruttando le fratture interne al centrosinistra legate alla ricandidatura, a quel punto certa, del governatore uscente, inviso ai vertici Pd ma con un forte consenso popolare. La vera posta in gioco, però, non è solo il controllo di qualche regione, ma l’equilibrio interno della coalizione e la tenuta del progetto di governo. Un risultato negativo in autunno, con una vittoria striminzita in Veneto e sconfitte nelle altre cinque regioni al voto, avrebbe effetti devastanti per la leadership di Giorgia Meloni: indebolirebbe la coalizione, farebbe esplodere le tensioni tra Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia, e potrebbe spianare la strada al ritorno in auge del centrosinistra.

Le regionali, si sa, sono spesso il primo campanello d’allarme per un cambiamento di vento politico: già in passato, le sconfitte locali hanno anticipato ribaltoni nazionali. Per questo Meloni sembra aver capito che non può permettersi di affrontare le urne autunnali come se fossero un passaggio di routine, e starebbe valutando due mosse strategiche di lungo periodo.

La prima è quella di congelare tutte le grandi riforme, dal premierato all’autonomia differenziata, e di rinviarle alla prossima legislatura, che a quel punto potrebbe essere presentata come quella destinata alle riforme costituzionali. In questo modo, eviterebbe di alimentare gelosie e rivalità con gli alleati, blinderebbe la coalizione attorno a un obiettivo comune e metterebbe le basi per una ricandidatura unitaria, utile anche in vista della prossima elezione del presidente della Repubblica, dove i numeri parlamentari saranno decisivi.

La seconda mossa riguarda la legge elettorale: Meloni starebbe valutando un ritorno al proporzionale, con l’intento di frammentare il centrosinistra. Un sistema proporzionale, infatti, spingerebbe i piccoli partiti e le correnti a presentarsi separatamente, disgregando il campo largo e impedendo al centrosinistra di presentarsi compatto come alternativa credibile.

Ma resta un dubbio fondamentale: siamo sicuri che queste due strategie, anche se portate avanti con successo, possano davvero garantire al centrodestra la vittoria alle politiche, soprattutto dopo un’eventuale disfatta alle regionali d’autunno? Il rischio è che agli elettori arrivi il messaggio di un governo intento a manipolare le regole del gioco per mantenere il potere, piuttosto che a governare con visione e competenza. Inoltre, una sconfitta elettorale pesante alle regionali avrebbe un impatto immediato sulla percezione di forza del governo, facendo emergere tutte le contraddizioni interne e aprendo la strada a nuove dinamiche parlamentari, a riposizionamenti e forse anche a tentazioni centriste che potrebbero rimettere in discussione la leadership della premier.

La partita del terzo mandato, dunque, è tutt’altro che secondaria: non è solo una questione di regole o di diritto costituzionale, ma una sfida che può determinare gli equilibri futuri del sistema politico italiano. Se davvero Meloni vuole consolidare la sua posizione e portare a termine il suo progetto di lungo periodo, dovrà trovare il coraggio politico di affrontare il nodo del terzo mandato con chiarezza, assumendosi la responsabilità di scelte impopolari ma necessarie. Se il consenso dei cittadini premia l'efficacia del governo locale, impedire a chi ha governato bene di ricandidarsi rischia di essere percepito non come una difesa della democrazia ma come un ostacolo posto da logiche di potere interne ai partiti. E in un’epoca in cui l’elettore premia sempre di più la competenza e la continuità, ignorare questa dinamica potrebbe essere un errore che il centrodestra pagherebbe molto caro, non solo in autunno, ma anche nei prossimi anni.