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Caso Pedretti: il delirio social richiede regole, non censure

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Dopo lo tsunami che ha travolto la Ferragni, la tragica vicenda della ristoratrice lodigiana ripropone l'urgenza di disciplinare la rete, conciliando la libertà di espressione con la tutela della reputazione.

Editoriali 19_01_2024
Wikimedia Commons

Le vicende che hanno incendiato la rete nelle ultime settimane, in particolare il caso Ferragni e il probabile suicidio della ristoratrice del lodigiano a seguito dei feroci attacchi che ha subito a proposito di una recensione (forse falsa) sul suo ristorante, hanno riproposto all’attenzione collettiva il confronto sulle regole della rete.

Come delimitare i confini della libertà d’espressione nello spazio virtuale senza incorrere nel rischio di censura? Si può trovare un equilibrio, simile a quello che esiste nei media tradizionali, tra la manifestazione delle opinioni e la tutela dei diritti fondamentali delle persone coinvolte?

Nel caso Ferragni per la verità ci sono altre questioni sul tappeto, che riguardano la trasparenza della pubblicità, la liceità delle condotte degli influencer, la genuinità della beneficenza. Ma sullo sfondo rimane il tema dell’equiparazione tra le regole della rete e le regole tradizionali, vale a dire la possibilità che i giudici applichino a web e social le stesse regole della stampa e dei mezzi radiotelevisivi per impedire l’anarchia, la concorrenza sleale, le scorrettezze nei confronti dei consumatori. Il futuro del caso Ferragni verrà scritto nei tribunali, ma intanto si rumoreggia sulla necessità di fissare per legge dei principi inderogabili che possano mettere ordine nel campo della pubblicità.

Ha assunto contorni più tragici la vicenda della ristoratrice del lodigiano, perché la tesi che prevale è che la donna si sia suicidata per colpa degli insulti ricevuti sui social e dell’infamia che le è stata gettata addosso a causa della diffusione di una recensione giudicata falsa sul suo ristorante. I fatti sono noti e i personaggi coinvolti, in particolare Selvaggia Lucarelli e il suo compagno Lorenzo Biagiarelli, food blogger, non hanno ancora smesso di commentare l’accaduto, speculando su una storia davvero triste.

Si poteva evitare in questo caso che la tossicità della rete producesse questi esiti nefasti? Casi come questo ce ne sono tanti e spesso sfociano in tragedie, soprattutto quando toccano soggetti vulnerabili e fragili. Il rimpallo di responsabilità è una costante in situazioni del genere e dunque sarebbe ora che si sostituisse lo scaricabarile con una autentica e matura assunzione di responsabilità nello spazio virtuale.

Il Digital services act (Dsa), il nuovo Regolamento europeo già in vigore dall’agosto scorso per le grandi piattaforme e che sarà pienamente operativo anche per le altre a partire dal 17 febbraio prossimo, introduce vincoli più stringenti per i provider, chiamati a una maggiore vigilanza sui contenuti in Rete, il che non vuol dire introdurre il potere di censura ma semplicemente disciplinare la pluralistica circolazione delle idee evitando che degeneri in insulti, sproloqui, offese gratuite, lesioni dei diritti individuali. Anche in materia di recensioni, nel marzo scorso l’Italia ha recepito la Direttiva Ue Omnibus del 2019, che obbliga a una maggiore trasparenza nelle opinioni e nelle valutazioni online. Ad esempio le piattaforme devono fare in modo di accertare la paternità delle recensioni, la loro autenticità (devono essere scritte da chi effettivamente ha acquistato e testato un bene o un servizio). Peccato, però, che tuttora non ci siano garanzie sul fatto che le recensioni che leggiamo siano attendibili e non oggetto di travisamenti o manipolazioni.

La cosa che stupisce maggiormente è che i colossi del web e dei social svolgano attività di profilazione per orientare le abitudini di consumo degli utenti e dunque utilizzino gli algoritmi per finalità commerciali e poi alzino le mani in segno di impotenza quando viene chiesta loro una maggiore vigilanza su contenuti di odio, infamanti e che possono provocare grave turbamento sulla psiche delle persone.

Peraltro sappiamo che la reputazione personale in rete è assai effimera e che basta pochissimo per distruggerla. Il tribunale dei social è imprevedibile e può decretare la distruzione dell’immagine di una persona. Va bene allora sensibilizzare gli utenti affinchè siano più rispettosi dei diritti altrui, ma se la situazione degenera è necessario che le grandi piattaforme attivino gli anticorpi per frenare lo tsunami che rischia di abbattersi sulla vita digitale di una persona.

Un conto è, dunque, la libera espressione delle idee, che le piattaforme devono garantire, al fine di non comprimere i diritti individuali. Altra cosa è l’anarchia e dunque una rete affidata esclusivamente alla auspicabile ma non certa correttezza degli utenti. Nei media tradizionali esistono precisi meccanismi di imputabilità e responsabilità delle azioni dei singoli. Nel web e sui social c’è ancora molta strada da fare per responsabilizzare sufficientemente le big tech, che amplificano la portata diffusiva dei messaggi violenti e finiscono per rendersi complici di chi li produce e li immette nei circuiti digitali con continue iniezioni letali.
 



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