Caso marò, il naufragio dei tecnici
La gestione della crisi con l'India, con il nostro ambasciatore praticamente in ostaggio, ha ormai raggiunto livelli surreali: Farnesina e Difesa mostrano un dilettantismo preoccupante ed errori che fanno perdere credibilità al Paese.
Gli sviluppi della crisi tra Italia e India determinata dalla decisione del governo Monti di non far tornare a Nuova Delhi i due militari italiani rischia ormai di trasformarsi in una comica. La vicenda era già al limite dell’assurdo finché si trattava della prigionia in un Paese straniero, prolungata per un anno, di due militari italiani in servizio attivo ma ora che le misure restrittive riguardano addirittura l’ambasciatore italiano a Delhi l’intera storia assomiglia a un episodio della vecchia serie televisiva “Ai confini della realtà”.
Da un lato c’è un Paese del Terzo Mondo che cerca di nascondere la sua inadeguatezza a gestire questioni internazionali con minacce e atteggiamenti senza precedenti neppure nelle più tetre dittature africane. Dall’altro un’Italia che non ha mai saputo far valere le sue ragioni e che oggi rischia di sembrare nel torto se non di apparire la solita “italietta” truffaldina, pronta a tradire la parola data e a vantarsi di sotterfugi e doppio gioco.
Sia chiaro, dopo la decisione della Corte Suprema indiana di affidare il giudizio di Salvatore Girone e Massimiliano Latorre a un fantomatico tribunale speciale a nomina governativa, Roma aveva ottime ragioni per trattenere in Italia i due militari. Non c'erano più garanzie (se mai ce ne sono state in passato) che i fucilieri subissero un processo equo nel rispetto del Diritto.
La reazione indiana, con la stizzita negazione delle libertà concesse dallo status diplomatico dell’ambasciatore Mancini (di fatto trattenuto in India e a rischio addirittura di arresto) dalla Convenzione di Vienna, ben dimostra quale senso della legalità aleggi in quelle lande asiatiche. Basti pensare che il comportamento delle autorità di Delhi è così grottesco da aver obbligato persino l’Unione Europea e il suo “ministro degli esteri”, Catherine Ashton, a dire per una volta qualcosa che assomigliasse a una precisa presa di posizione. In realtà nulla di eclatante ma almeno la baronessa ha fatto presente a Delhi che “la Convenzione di Vienna va rispettata”.
Ciò nonostante anche l’Italia non ci fa una bella figura soprattutto se si considera che il governo tecnico avrebbe dovuto ridare credibilità e autorevolezza al Paese. Sul piano diplomatico la Farnesina e la Difesa hanno giocato male l’intera vicenda non tanto perché hanno commesso errori o compiuto gesti criticabili (che rientrano nell’ambito delle opzioni politiche) ma soprattutto perché hanno rivelato un dilettantismo preoccupante. Non c’era nessun bisogno di annunciare che Girone e Latorre non sarebbero rientrati in India con così largo anticipo rispetto alla data del ritorno a Delhi, il 22 marzo.
Meglio sarebbe stato anticipare questa ipotesi sottolineando nei consessi internazionali che l’Italia non poteva sottoporre i suoi soldati al giudizio di un Paese straniero che istituiva tribunali speciali e in un anno non era stato neppure in grado di esprimersi circa la giurisdizione del caso. Un’iniziativa simile portata innanzi in ambito ONU, Ue e Nato e con un’ampia eco mediatica avrebbe messo alle strette l’India spiegando preventivamente al mondo le ragioni dell’Italia e concordando (o pretendendo) azioni comuni con i nostri partner e alleati.
Invece il governo Monti, ormai in scadenza, ha fatto finta di nulla mantenendo il solito ridicolo silenzio che ha contraddistinto per un anno la vicenda dei marò umiliando l’Italia e le sue forze armate. Dopo aver preso a schiaffi l’India tradendo la parola data, Giulio Terzi e Giampaolo Di Paola (ma anche Mario Monti) avevano il dovere e l’interesse di ribattere in prima persona alle accuse indiane difendendo le ragioni di quel gesto anche e soprattutto sul fronte mediatico. Difendere la decisione presa a testa alta e senza reticenze avrebbe assicurato credibilità e fermezza all’Italia, doti che evidentemente scarseggiano, con il risultato che la Ue reagisce tiepidamente e con manifesto disagio e gli Stati Uniti liquidano la vicenda dicendo che sono affari che riguardano solo l’India e l’Italia.
Quando le autorità indiane fermarono la petroliera Enrica Lexie, il 15 febbraio 2012, e poi arrestarono Latorre e Girone il governo italiano tacque per molti giorni lasciando che tutti i media del mondo riportassero, amplificandola, la versione indiana che accusava i nostri soldati di essere assassini. Oggi l’errore compiuto è lo stesso di allora a conferma che non basta scrivere brevi messaggi su Twitter per avere un’idea del valore strategico della comunicazione. Sotto questo profilo Terzi e Di Paola appaiono come due “dinosauri” convinti che il silenzio delle istituzioni risolva o sminuisca i problemi invece di ingigantirli.
Per supponenza o incapacità non sembrano rendersi conto che lasciare all’avversario il campo mediatico significa assicurargli un vantaggio strategico spesso incolmabile. Un approccio che ha caratterizzato a ben guardare non solo la vicenda dei marò. Basti pensare che la visita del ministro Di Paola al presidente afghano Karzai del 9 marzo scorso (nella quale hanno parlato del delicato tema del futuro impegno italiano a Kabul dopo la fine della missione Nato, nel 2014) è stata resa nota il giorno dopo non dalla Difesa italiana ma dalla presidenza afghana. Superfluo aggiungere che non è proprio edificante che il governo italiano riceva lezioni di trasparenza da quello afghano. A quanto pare sul caso marò l’esecutivo Monti non è riuscito a garantirsi il supporto politico dei partner europei e occidentali né a mettere a punto una strategia mediatica dimostrandosi così dilettantesco. Forse la critica peggiore che si possa rivolgere a dei tecnici.