Caos immigrati, finalmente l'Onu si sveglia
Le Nazioni Unite si sono finalmente accorte del grande fenomeno dell'emigrazione "non programmata" dall'emisfero Sud al mondo industrializzato. L'Onu, dopo aver superato le reticenze delle sue agenzie, ha programmato una conferenza internazionale. I problemi da risolvere saranno essenzialmente due: ridare speranza ai ceti medi dei paesi in via di sviluppo; spezzare la catena dei trafficanti.
Le Nazioni Unite si sono finalmente accorte delle migrazioni in massa “non programmate” dall’emisfero Sud verso l’Europa, gli Stati Uniti e altri Paesi molto sviluppati. L’Alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati, Unhcr/Acnur, ha lanciato un appello alla mobilitazione internazionale, e il Segretario generale dell’Organizzazione ha annunciato per il 30 settembre prossimo una conferenza internazionale ad hoc.
L’opportunità dell’iniziativa è così ovvia che non ci si può che domandare perché mai non ci avessero pensato prima. Voci che circolano nell’ambiente dell’Onu danno di tanta inerzia una squallida giustificazione: pare che le sue agenzie specializzate temessero che una mobilitazione diretta degli Stati al riguardo potesse togliere loro risorse e libertà di movimento, e che quindi abbiano cercato a lungo di andare avanti da sole, di fare da sé (poco o nulla, diciamo noi). Chi comunque, noi compresi (cfr. Immigrati, ci vuole una Conferenza internazionale, La Nuova Bussola Quotidiana, 17 agosto 2015), sollecitava tale conferenza non può che compiacersene. C’è poi da sperare che, trattandosi di un problema già largamente noto, in quella sede non si perda tempo in inutili studi e ricerche preliminari.
La prima cosa di cui prendere atto è che, al di là di ogni rispettiva specificità, il fenomeno ha ormai dimensioni planetarie. Fa notizia il Mediterraneo, quest’anno fino ad oggi solcato da circa 300 mila migranti “non programmati” in cammino verso l’Unione Europea. Nel Nordamerica si registra però un flusso analogo di latino-americani, messicani ma non solo, che attraversano il Messico diretti verso gli Stati Uniti. Analoghi fenomeni, anche se al momento di minore intensità, si registrano nell’Estremo Oriente. Si pensi ad esempio al caso dei Rohingja in fuga dal Bangladesh e dal Myanmar di cui già parlammo. I motori di questo esodo sono in primo luogo l’enorme squilibrio in quanto a ricchezza e qualità di vita che nel nostro tempo si verifica tra i Paesi più avanzati e quelli che lo sono meno. In nessuna altra epoca storica precedente tale squilibrio è stato così rilevante: oggi gli ultimi in graduatoria hanno un reddito pro capite pari anche a circa un trentesimo di quelli che sono ai primi posti. A ciò si aggiunge il fatto che, grazie alla pan-comunicazione a bassissimo costo che caratterizza il nostro tempo, in qualsiasi angolo della terra si sa o si crede di sapere come si vive negli Stati Uniti, in Europa e così via. Grazie alle tv satellitari e a Internet si diffonde per suoni e immagini un’idea della vita nel Nord industrializzato che tra l’altro è ben più rosea della realtà: è l’immagine, sostanzialmente pubblicitaria, di un grande paese del Bengodi dove c’è tutto e questo tutto in pratica non ti costa niente.
Quanto più dunque si è, relativamente al luogo, non un misero ma un “ceto medio”, tanto più in situazioni di crescente povertà e crescente insicurezza diventa irrefrenabile l’idea di raggiungere ad ogni costo un Paese sviluppato. Non sono infatti i poverissimi che si muovono. Non soltanto in terre segnate dalla fame ma anche in terre dilaniate dalla guerra costoro restano sempre e comunque dove sono perché non hanno né le informazioni né le risorse necessarie per tentare la fuga. Chi paga il posto sul gommone anche 2000 dollari, al termine di un viaggio clandestino spesso intercontinentale costato qualche altro migliaio di dollari, tanto più rispetto al tenore di vita del Paese d’origine non è affatto un proletario. Gli abiti che queste persone indossano sembrano povera cosa a noi, ma a casa loro sono indumenti costosi che non tutti si possono permettere. Per i Paesi da cui fuggono è un dissanguamento particolarmente grave: in modo disperato e temerario partono persone che più di altre, se ce ne fossero le condizioni, potrebbero molto meglio impegnare in patria le proprie competenze e le proprie risorse economiche. E proprio perché non sono privi di risorse economiche queste loro risorse fanno gola a organizzazioni transcontinentali di passatori criminali che cercano si spremerle fino all’ultimo dollaro.
La conferenza internazionale che l’Onu ha finalmente annunciato sarà pertanto una perdita di tempo se non affronterà in modo sistematico la questione in entrambi i suoi aspetti: da un lato impegnando chi di dovere, ossia le grandi potenze, a stabilizzare e a dare speranza di futuro ai Paesi, alle aree e agli strati sociali da cui l’esodo si origina; dall’altro impegnando tutti i Paesi interessati a questi flussi di migrazione illegale a rompere la catena criminale che lucra su di essi colpendola innanzitutto nei suoi primi anelli, là dove l’esodo inizia. La soluzione del problema infatti non passa per politiche volte all’accoglienza generale e indiscriminata di questi migranti, il che è catastrofico sia per i Paesi di arrivo che per quelli di partenza. Si tratta piuttosto di creare le condizioni perché queste migrazioni da un lato siano legali, e quindi governate, e dall’altro siano non patologiche ma fisiologiche. Perché insomma migrino soltanto persone il cui esodo sia ragionevole, tanto per loro quanto per il Paese ove giungono nonché quello da cui partono.