Camisasca rispolvera la Dottrina sociale. Ma non basta
Il vescovo di Reggio Emilia Massimo Camisasca ha rivolto un Discorso alla Città e alla Diocesi dal titolo “I cattolici italiani e la politica”. Degni di nota i tanti riferimenti alla Dottrina sociale della Chiesa, ma lo sguardo "personalista" e generalista rendono il discorso non sufficiente. Sopratuttto tenuto conto che in esso potrebbero riconoscersi anche tanti cattolici favorevoli alla 194.
Domenica scorsa 24 novembre, nella solennità del Patrono di Reggio Emilia San Prospero, il vescovo Massimo Camisasca ha rivolto un Discorso alla Città e alla Diocesi dal titolo “I cattolici italiani e la politica”. Si tratta di un testo ampio che va adeguatamente esaminato. In queste righe mi soffermo soltanto su un paragrafo del Discorso, quello che presenta cos’è “La Dottrina sociale della Chiesa”. Siccome il Discorso prende le mosse dalla esigenza di “una nuova classa dirigente” per il nostro Paese della quale – dice il vescovo Camisasca - deve interessarsi anche la comunità cristiana, si tratta di vedere se la presentazione della Dottrina sociale della Chiesa contenuta nel testo sia utile a quello scopo.
Nella presentazione del vescovo Camisasca, ci sono alcuni elementi degni di nota. La nascita della moderna Dottrina sociale della Chiesa con Leone XIII – di cui si ricorda molto opportunamente l’insieme unitario di nove encicliche e non solo la Rerum novarum – è presentata come risposta al fatto che “gli Stati liberali dell’Ottocento di fatto cercarono di estrometterla dalla vita pubblica e attuarono politiche volte alla desacralizzazione della società”. Camisasca non dice che, allora, la Dottrina sociale nasce con lo scopo di riaprire per la Chiesa un posto nella vita pubblica e combattere la secolarizzazione, ma l’annotazione è di per sé buona.
Secondariamente, si riconosce alla Dottrina sociale la capacità di “illuminare”, alla luce del Vangelo, una determinata situazione storica e aiutare così l’uomo “a comprendere come custodire, ordinare e vivere il proprio rapporto con se stesso, con gli altri (in famiglia, nella società, nelle Nazioni, nei rapporti internazionali) e con il creato”. Manca il riferimento espresso al rapporto con Dio, che la Dottrina sociale pone come rapporto “pubblico” a fondamento di tutti gli altri rapporti citati. Ne potrebbe risultare una visione orizzontale, umanistica o ecologistica della funzione della Dottrina sociale della Chiesa … ma interpretando in modo forte l’espressione “alla luce del Vangelo” il pericolo può forse essere evitato.
Il vescovo Camisasca non manca poi di notare che la Dottrina sociale della Chiesa si fa “forte di una riflessione ininterrotta da duemila anni a questa parte”. Con ciò egli fa opportunamente capire che si tratta di una “tradizione” inserita a sua volta nella “tradizione” della Chiesa. Questa concezione “tradizionale” della Dottrina sociale poteva forse essere detta più esplicitamente, potevano essere citati anche i Dottori della Chiesa, si poteva ricordare che ciò fa di essa un “corpus dottrinale” coerente e che porta con sé tutto il patrimonio dottrinale del deposito della fede cattolica da cui è illuminata … ma comunque l’accenno c’è ed è positivo.
In quarto luogo, il breve scritto del Vescovo è di stampo “personalista”. Dice infatti che per la Dottrina sociale della Chiesa “la persona è il supremo valore” essendo portatrice di “diritti naturali” che si radicano “nella natura creata dell’essere umano e che costituiscono il primo argine alle pretese del potere”.
Considerare la persona come “supremo valore” non ci difende molto dal soggettivismo radicale e dal principio di autodeterminazione che mette la libertà prima della verità. Parlare di “diritti naturali” è corretto, ma sarebbe stato meglio riproporre il “diritto naturale” per evitare fraintendimenti con i diritti soggettivi anarchici e con i “nuovi diritti”. Sarebbe stato il caso anche di dire che il diritto naturale per poter far da argine al potere deve essere garantito non solo dalla morale ma anche dalla religione. Pur senza queste auspicabili precisazioni, comunque, un certo riferimento ad un ordine normativo del creato che dipende dal Creatore c’è.
Da ultimo vale osservare che il vescovo ripropone la definizione di Dottrina sociale della Chiesa data da Giovanni Paolo II nel paragrafo 55 della Centesimus annus (1991), secondo cui essa è annuncio della salvezza di Cristo nelle realtà temporali. La citazione è importante e va a suo merito averla ripresa. Certo, da essa si poteva trarre conseguenze un po’ più “decise”, ma la densa ed esigente citazione è lì, a far bella mostra di sé.
A questo punto ci poniamo la domanda se questa presentazione della Dottrina sociale della Chiesa possa essere adatta a favorire la nascita di una nuova classe dirigente, alimentata anche da cattolici, come è nell’auspicio del Discorso di san Prospero. La mia impressione è no, che non sia sufficiente. La presentazione della Dottrina sociale del vescovo Camisasca è ancora troppo generica e tale che ogni cattolico, qualsiasi sia la sua collocazione ideologica e politica, possa riconoscervisi. Non sono indicati gli aspetti della Dottrina sociale che “tagliano” il campo ed esigono di stare da una parte (parlo di “parte” ideale, morale, religiosa naturalmente) e non dall’altra. Per esempio, in questo testo potrebbero riconoscersi anche i cattolici che difendono la 194, la legge che ammette l’aborto nel nostro Paese. È interessante che un vescovo si sia preso la briga di tirare fuori dalla naftalina la Dottrina sociale della Chiesa. Questo non è però sufficiente per porla a riferimento di una nuova classe politica. Non solo perché bisognerebbe insegnarla sistematicamente, cosa che no si fa, ma soprattutto perché bisogna presentarla nelle sue intrinseche esigenze religiose, morali ed operative. E se questo viene fatto, il campo cattolico oggi si spacca in due.