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LA SENTENZA DI TRAPANI

Cambio di sesso senza ormoni: il corpo è un accessorio

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Trapani: il giudice autorizza il cambio di sesso di un uomo senza bisturi e ormoni: è il compimento di un percorso che va dalla legge 164/82 fino ai pronunciamenti di Consulta e Cassazione del 2015: riconosciuto il diritto, basta un'autodichiarazione. Ma è la superbia di credersi Dio onnipotente, in cui la volontà coincide con l’essere.

Creato 18_07_2023

In principio fu la legge n. 164 del 1982 sulla rettificazione sessuale, la quale all’art. 1 così disponeva e dispone tutt’oggi: «La rettificazione si fa in forza di sentenza del tribunale  passata in giudicato che attribuisca ad una persona sesso diverso  da  quello enunciato nell'atto di nascita a seguito di intervenute modificazioni dei suoi caratteri sessuali». Di primo acchito pare che la norma voglia dire: prima ti operi e poi potrai cambiare nome all’anagrafe, grazie ad una sentenza del Tribunale.

Ma le cose, oggi e non nell’82, non stanno proprio così. Infatti, per comporre il puzzle della situazione odierna sul “cambiamento” di sesso ci mancano ancora alcune tessere. La prima è data dall’art. 31 del decreto legislativo n. 150 del 2011, il quale così dispone al comma 4: «Quando risulta necessario un adeguamento dei caratteri sessuali da realizzare mediante trattamento medico-chirurgico, il tribunale lo autorizza con sentenza  passata  in  giudicato». Anche in questo caso pare che il comma voglia dire quanto segue: per “cambiare” sesso non è sempre necessario il trattamento chirurgico. Sta al giudice decidere caso per caso. Ma l’interpretazione maggioritaria della giurisprudenza invece lo interpretava così: il bisturi serve sempre, eccetto in quei rari casi in cui l’operazione è già avvenuta all’estero o in cui i caratteri primari sessuali (genitali e apparato riproduttivo) sono già modificati per (un errore di) natura, non corrispondendo in parte o totalmente al sesso genetico. Ma questa interpretazione maggioritaria nel tempo è stata abbandonata.

Ed infatti arriviamo al 2015. La sentenza del 20 luglio 2015, n. 15138, della Corte di cassazione riguardava una persona di 45 anni che voleva “cambiare” sesso, che chiameremo Marco. Come prevedeva l’interpretazione maggioritaria della giurisprudenza prima menzionata, per “cambiare” sesso occorreva l’operazione chirurgica che Marco era riuscito ad ottenere dal Tribunale nel 1999. Ma poi rinunciò all’operazione perché si sentiva perfettamente donna pur in un corpo con attributi maschili e ricorrendo solo ai trattamenti ormonali. Però Marco voleva cambiare nome all’anagrafe, insomma voleva che lo Stato certificasse il suo “cambiamento” di sesso anche senza il ricorso al bisturi. Ne nacque una vertenza che approdò fin in Cassazione. Qui la svolta: «la conclusione del processo di ricongiungimento tra “soma e psiche” – scrivono i giudici – non può, attualmente, essere stabilito in via predeterminata e generale soltanto mediante il verificarsi della condizione dell’intervento chirurgico». Questo per un motivo di fondo: la cosiddetta identità di genere, che ricomprende anche il diritto di “cambiare” sesso, attiene ai diritti personalissimi e in quanto tali lo Stato non può costringere nessuno a determinati percorsi clinico-medici. Il “cambiamento” di sesso rientra dunque nell’alveo intoccabile dell’autodeterminazione della persona. Sta a lui quindi decidere le modalità che vuole seguire: trattamenti ormonali e/o interventi chirurgici.

Passa qualche mese ed anche la Corte costituzionale, con la sentenza n. 221 del 21 ottobre 2015, si pronuncia sul tema. Più nello specifico viene chiamata a sindacare la legittimità costituzionale dell’art. 1 della legge dell’82 prima citata, perché, costringendo all’operazione chirurgica, la norma sarebbe liberticida. La Corte dichiara che quell’articolo non è incostituzionale perché l’espressione «a seguito di intervenute modificazioni dei suoi caratteri sessuali» – che indica quindi la condizione per “cambiare” sesso – non sta a significare necessariamente interventi chirurgici. Così i giudici: la «mancanza [nella legge] di un riferimento testuale alle modalità (chirurgiche, ormonali, ovvero conseguenti ad una situazione congenita), attraverso le quali si realizzi la modificazione, porta ad escludere la necessità, ai fini dell’accesso al percorso giudiziale di rettificazione anagrafica, del trattamento chirurgico, il quale costituisce solo una delle possibili tecniche per realizzare l’adeguamento dei caratteri sessuali». Il trattamento chirurgico è quindi opzionale e non necessario e così deve essere letto anche il decreto legislativo del 2011. Insomma, la Consulta viaggiava sulla stessa frequenza d’onda della Cassazione.

Però attenzione. Abbiamo scavalcato l’ostacolo del bisturi, ma su Mario che vuole diventare Maria pesano ancora dei vincoli. I giudici della Corte costituzionale, infatti, così proseguono: si «rimette al singolo la scelta delle modalità attraverso le quali realizzare, con l’assistenza del medico e di altri specialisti, il proprio percorso di transizione, il quale deve comunque riguardare gli aspetti psicologici, comportamentali e fisici che concorrono a comporre l’identità di genere». In soldoni: se vuoi “cambiare” sesso devi comunque parlare con uno psicologo e devi comunque sottoporti almeno ai trattamenti ormonali. Qualche intervento sul tuo corpo deve pur essere fatto.

Questo il quadro fino al 2015. Arriviamo ai giorni nostri e leggiamo su tutti i media che Emanuele è diventato Emanuela all’anagrafe non solo senza passare dal bisturi, ma senza nemmeno dover sottoporsi a trattamenti ormonali. Così ha deciso il Tribunale di Trapani. «Non avere l’organo sessuale femminile non compromette il modo in cui mi percepisco, le mie sembianze non offuscano la mia identità femminile», ha dichiarato l’ex Emanuele.

In punta di diritto tale sentenza scricchiola. Infatti, l’art. 1 della legge 164 parlava di «modificazioni dei […] caratteri sessuali». Una modificazione che può avvenire, per ipotesi, anche con i solo ormoni. Ma occorre comunque un intervento modificativo dei caratteri sessuali o primari o secondari (crescita dei peli, rafforzamento muscolare, etc per gli uomini; crescita del seno, allargamento del bacino, etc. per le donne). Detto ciò, è certo che prima o poi arriverà un giudice della Cassazione o della Consulta che affermerà che i caratteri sessuali possono avere natura anche meramente psicologica e non solo necessariamente fisiologica. Dunque chi si percepisce e si rappresenta come donna pur essendo uomo ha già modificato dentro di sé i caratteri sessuali e questo tanto basta per cambiare nome all’anagrafe. E così se i legislatori dell’82 intendevano quasi certamente l’operazione chirurgica come conditio sine qua non per cambiare nome all’anagrafe, oggi basta un’autocertificazione. In breve: l’apparenza inganna perché ti potrai trovare davanti una persona barbuta e con un tono di voce baritonale che vuole essere chiamata Clementina.

Questa involuzione esegetica della legge 164 parte da un principio che, se accettato, non può che portare alla conclusione che sia sufficiente un’autodichiarazione per “cambiare” sesso. Il principio contenuto nella stessa legge 164 è il seguente: è giuridicamente legittimo “cambiare” sesso. Dunque, il dato genetico è irrilevante. È il soggetto stesso, tramite un processo di autopoiesi, che si costruisce l’identità sessuale che vuole. La rettificazione sessuale – a volte doverosa per un errato riconoscimento del sesso di appartenenza al momento della nascita a motivo di patologie anche di carattere morfologico – la rettificazione sessuale, dicevamo, poggia alla fine sul principio di autonomia del soggetto. Sono io che decido a quale sesso appartenere perché io debbo essere ciò che voglio e la legge deve soddisfare questa mia esigenza attinente all’identità personale. E sono sempre io – come già ricordava la Consulta – che scelgo le modalità per “cambiare” sesso. Se io ritengo sufficiente il trattamento ormonale, bene così. Se io poi ritengo sufficiente la percezione di me come appartenente al sesso femminile pur essendo uomo, senza bisogno di farmaci da assumere, bene così, anche in questo caso. Tutto ciò è coerente con la premessa che sta a monte: il dato fisico è irrilevante. Se lo è quello genetico, perché non dovrebbe esserlo quello dei caratteri sessuali primari e secondari? Sono sempre attributi fisici e come tali possono essere trascurati.

Dunque, accettato il principio che è legittimo “mutare” di sesso e che è dunque un diritto, tutte le modalità per esercitare quel diritto devono essere tutelate. A maggior ragione quelle meno invasive. Il Tribunale di Trapani si pone quindi al termine di questa parabola il cui inizio è da rinvenire nella stessa legge 164 e il cui sfondo è l’hybris (superbia, tracotanza ndr.) di credersi Dio onnipotente, in cui la volontà coincide con l’essere.