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LETTURE PER L’ESTATE/1

Caligola e il desiderio della luna

Nella seconda versione dell’opera teatrale “Caligola”, Camus inserisce un nuovo terzo atto e il personaggio Elicone, schiavo liberato dall’imperatore. Che a un certo punto, disperato per la morte dell’amata Drusilla, domanda la luna. Segno di una sete di impossibile e di infinito che dice molto dell’animo umano.

Cultura 28_06_2020

Dell’opera teatrale Caligola di Albert Camus riproponiamo oggi la versione del 1941, la seconda e non definitiva. Le ragioni di questa scelta saranno ben presto comprensibili. L’opera non è senz’altro solo espressione della creatività e della genialità giovanile dello scrittore francese, ma oggetto di diverse rielaborazioni dal 1937 al 1958, l’anno successivo al conseguimento del Premio Nobel: è, quindi, testo che più degli altri si presta a subire modifiche e cambiamenti che possano trasmettere di volta in volta il pensiero di uno scrittore che è engagé, giornalista e filosofo che vuole comunicare il suo pensiero sulla vita e sulla storia attraverso le righe dei romanzi e dei saggi o le battute delle opere teatrali.

La prima versione del 1938-1939, immatura a giudizio dello stesso Camus, presenta un personaggio improntato alla voglia di vivere esasperata e alla libertà eslege, senza confini, illimitata, improntato allo spirito dionisiaco niciano.

La terza e definitiva versione del 1958, come ha scritto il critico Gino Zampieri, vuole «difendere il pubblico dalla possibile tentazione di Caligola», smorza il fascino della sua figura e denuncia expressis verbis il comportamento dell’imperatore attraverso le parole del giovane poeta Scipione, quali «l’odio non compensa l’odio» o «il potere non è una soluzione». Dopo l’esplosione dei totalitarismi in Europa e la tragedia della Seconda Guerra Mondiale l’identificazione del personaggio di Caligola con Hitler era scontata e il drammaturgo voleva evitare una possibile lettura positiva o comunque ambigua del personaggio.

Nella seconda versione del 1941, invece, assistiamo (rispetto alla prima) all’inserzione di un nuovo terzo atto e del personaggio di Elicone, schiavo liberato da Caligola, divenuto suo amico.

Dopo la morte della bellissima sorella/amante Drusilla, Caligola si lascia andare a comportamenti efferati, ingiustificati, che sembrano ostentazione del suo potere illimitato e del suo desiderio di ergersi ad arbitro del destino degli uomini. L’imperatore è insoddisfatto, animato da un desiderio di compimento e di totalità che assomiglia molto all’abisso di vita di Miguel Manara, il don Giovanni raccontato da Oscar Milosz.

In un certo senso, questo imperatore, che sembra aver perso la ragione dopo la perdita dell’amata, rappresenta l’uomo autentico, contraddistinto da un desiderio di felicità infinita, illimitata, non colmabile da piaceri finiti quali quelli che si incontrano nella vita reale, un uomo che non desiste dalla propria natura e continua a desiderare quello che sembrerebbe impossibile, ma che anche solo una volta è stato sperimentato e, di conseguenza, è diventato possibile, ovvero  la luna, così come afferma Caligola.

Quando Elicone cerca di informarlo sulla congiura che è stata tramata contro di lui, l’imperatore non se ne cura e continua imperterrito a manifestare il desiderio più profondo. Siamo nell’Atto III (scena III e IV):

Caligola  - Elicone!

Elicone   - Che c’è?

Caligola  - (Con voce seria e stanca) Voglio la luna.

Elicone  - La luna? Per farne che?

Caligola  - È una cosa che non ho.

Elicone  - Bene. Cercherò di procurarmela.

Caligola - (infantile)  Come vedi, non chiedo mica l’impossibile.

Elicone - Certo. Farò del mio meglio. Ma prima devo dirti qualcosa d’importante.

Caligola - (senz’ascoltarlo) Tieni presente che l’ho già avuta.

Elicone  - Chi?

Caligola - La luna.

Elicone  - Sì, certo. Ma lo sai che c’è una congiura per ucciderti?

Caligola  - Io l’ho avuta completamente. Soltanto due tre volte, è vero. Ma insomma sì, l’ho avuta. […] Se qualcuno ti portasse la luna sarebbe tutto diverso, non è così? L’impossibile diventerebbe possibile e qualsiasi cosa cambierebbe, così d’un colpo. E perché poi Elicone non dovrebbe portarti la Luna.

Questo desiderio dell’infinito, dell’impossibile descritto così bene da Camus, è il sentimento più nobile per l’uomo, più elevato, più sublime, quel sentimento che Leopardi definisce laconicamente col termine «noia»:

in qualche modo il più sublime dei sentimenti umani, […], il non potere essere soddisfatto da alcuna cosa terrena, né, per dir così, dalla terra intera; considerare l’ampiezza inestimabile dello spazio, il numero e la mole meravigliosa dei mondi, e trovare che tutto è poco e piccino alla capacità dell’animo proprio; immaginarsi il numero dei mondi infinito, e l’universo infinito, e sentire che l’animo umano e il desiderio nostro sarebbe ancora più grande che sì fatto universo; e sempre accusare le cose di insufficienza e di nullità, e patire mancamento e voto, e però noia, pare a me il maggior segno di grandezza e nobiltà, che si vegga della natura umana (Pensieri, LXVIII).

Questo sentimento denuncia in maniera inconfondibile la statura umana, l’aspirazione all’Infinito del nostro animo, la sua incapacità di accontentarsi di piaceri finiti e limitati, la necessità di incontrare un piacere infinito che corrisponda al proprio cuore.

Caligola è convinto di aver incontrato quel bene in grado di colmare l’abisso del suo animo:

Io t’amavo, Drusilla, di un amore puro – puro come le stelle più pure. T’amavo, Drusilla, come si può amare il mare o la notte – con un impeto che aveva tutta la disperazione dei naufragi. E ogni volta che sprofondavo in questo amore, mi sottraevo ai clamori del mondo e all’infernale tormento dell’odio. Non lasciarmi, Drusilla. Ho paura. Ho paura dell’immensa solitudine dei mostri. Non andartene. Ah, questa tenerezza e questo andare oltre!... (Atto I)

Il destino gli sottrae, però, l’amata e ora l’imperatore, che ha incontrato il volto del destino, vuole indossare lui stesso la maschera del destino per chi incontra, convinto che ognuno possa recitare la parte degli dei, è sufficiente indurirsi il cuore. Perso l’amore, Caligola si pone sul piedistallo come divinità imperitura, arbitro del destino suo e altrui, insensibile e imperturbabile, empio e dissacrante, «animato sempre da una passione troppo forte per la vita».

Caligola comprende che, se da un lato il dramma della vita è la solitudine, dall’altro non si è mai soli, perché l’uomo si porta addosso il peso del passato e del futuro, il fardello di tutti coloro che abbiamo o non abbiamo amato, «il rimpianto, il desiderio, il disincanto e la dolcezza».

Nel quarto e ultimo atto, poco prima che si compia il suo destino, Caligola esclama:

La tenerezza! Ma dove trovarne tanta da soddisfare la mia sete? Dove trovare un cuore così profondo come un lago? Eppure sono certo […] che mi basterebbe l’impossibile. L’impossibile! L’ho cercato ai confini del mondo e di me stesso. Ho teso le mani.

Dobbiamo avere rispetto di questo «religioso» sentimento d’insoddisfazione e di inquietudine, di questa tristezza che deriva da una tensione inesausta all’infinito, alla compiutezza e alla perfezione. L’uomo che vive con autenticità la propria esistenza non può recedere dalla condizione di ricerca e di domanda di felicità. Volersi bene e voler il proprio bene coincidono con questa domanda inesausta. Soltanto una rinuncia al proprio bene potrebbe portare l’uomo a non domandare più e a percepire meno il pungolo della noia, dell’insoddisfazione, del «desidero pieno».

Ma l’uomo non è in grado di darsi la felicità da solo, perché, come scrive sant’Agostino nelle Confessioni, «Ci hai fatti per Te e inquieto è il nostro cuore finché non riposa in te» (Le Confessioni, I,1,1). Non è l’uomo a trovare la verità, deve lasciare che sia la verità a trovare lui.