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IL CASO CAVANI

Calciatori miei, razzisti immaginari

Edinson Cavani, calciatore uruguayano di fama internazionale, costretto a difendersi dall'accusa infamante di razzismo per aver ringraziato un amico con "gracias negrito", che in spagnolo è un vezzeggiativo. Cosa c'è dietro alla militanza antirazzista?

Editoriali 05_01_2021 English Español
Edinson Cavani

Qualche settimana fa era toccato ad un guardalinee romeno: bollato come razzista perché nel corso di una partita di Champions League aveva indicato all'arbitro il vice-allenatore di una squadra turca definendolo “negru” (termine che indica “nero” nella sua lingua, come in molte lingue neolatine) per distinguerlo da altri di carnagione più chiara. I chiarimenti sul fatto che non vi fossero intenzioni offensive in quel termine non erano serviti a niente: si era scatenato tutto il circo equestre dei “professionisti dell'antirazzismo” (per parafrasare Leonardo Sciascia) nel mondo sportivo, con comunicati scandalizzati per l'orribile offesa. Il reo era stato immediatamente radiato, e ci si era messo di mezzo persino Erdogan a rinfocolare la rabbia contro le presunte prepotenze occidentali.

In questi giorni, invece, il ruolo del capro espiatorio sulla pelle del quale celebrare il rito ricorrente del “dagli al razzista” è toccato al povero Edinson Cavani: calciatore uruguayano tra i più celebri del mondo, attualmente in forza al Manchester United, e sportivo noto per la sempre esemplare correttezza. Qual è stata la sua imperdonabile colpa? Quella di rispondere su Instagram ai complimenti di un amico compatriota con la frase “Gracias, negrito”. Un'espressione evidentemente, inequivocabilmente affettuosa. Apriti cielo: il calciatore è stato segnato a dito dai soliti “indignati permanenti” per l'uso di quella che ormai nel mondo politically correct anglocentrico è una “parola tabù” anche se appartieni a una cultura e parli una lingua del tutto differente, e l'associazione inglese di football prontamente ha squalificato Cavani per tre turni.

Ora, se nel caso della partita di coppa chi sosteneva che le intenzioni del guardalinee erano irriguardose si era potuto quanto meno appuntare sulla tensione tra la panchina turca e la terna arbitrale durante la partita, nulla del genere è possibile imputare al campione del Manchester. In difesa del quale è intervenuta persino l'Accademia della lingua spagnola dell'Uruguay – non proprio gli ultimi arrivati in campo linguistico e culturale – , che in un comunicato ha giustamente rimproverato la FA inglese di totale ignoranza della lingua spagnola e della cultura latinoamericana. Ricordando che "le parole che si riferiscono al colore della pelle, al peso e ad altre caratteristiche fisiche sono usate di frequente tra amici e parenti in America Latina, specialmente nel diminutivo. In quel contesto sono espressioni di tenerezza e sono spesso utilizzate indipendentemente dall'aspetto del soggetto”. D'altra parte, chiunque li conosca un minimo sa che i paesi sudamericani sono società spiccatamente multietniche, in cui si ha continuamente a che fare con individui dal colore della pelle diverso, e dire di una persona che è nera, bianca, mulatta, india per indicarla è come per un nativo europeo dire di qualcuno che è biondo, bruno, castano, rosso di capelli.

Ma finora pare che le precisazioni siano cadute nel vuoto. La squalifica a Cavani resta confermata. Ed è da segnalare il fatto significativo che lo stesso giocatore, pur contestando ovviamente l'assurda “condanna”, ha dichiarato di voler rispettare il pronunciamento, ha rinunciato a sporgere ricorso e ha ribadito di essere contrario “ad ogni forma” di razzismo. Gesti che rientrano in un rito simbolico di espiazione a cui comunque chi è toccato dall'accusa infamante tocca sottoporsi, col capo cosparso di cenere, per evitare che in futuro quella macchia rimanga comunque sulla sua reputazione. L'impressione, quando si apprende di episodi del genere, è quella di essere davanti ad un vero e proprio teatro dell'assurdo. Nel primo caso come, ancor più chiaramente, nel secondo è evidente che il problema semplicemente non esiste. Nessuno sta considerando inferiore nessun altro per il colore della sua pelle, per la sua etnia, per la sua cultura, per la sua religione. Ciò nonostante, si sollevano tempeste di scandalo perchè, si dice, qualcuno è stato “offeso”. E chi? Tutti coloro che hanno una pigmentazione scura dell'epidermide, a quanto pare: i quali, non si sa per decisione di chi, non possono essere designati da nessun altro con il vocabolo che, nelle lingue latine, esprime – unico – il colore nero, perché questo equivarrebbe ad una discriminazione, benché quelle persone nei fatti non soffrano alcuna disuguaglianza.

Perché si verifica questa follia? E, in particolare, perché si assiste ad una inquietante concentrazione di dispute intorno a “razzismi” immaginari proprio nel mondo dello sport, e in primo luogo del calcio, lo sport più popolare nelle società occidentali? La verità è che nello sport stiamo assistendo ad uno dei casi più canonici di affermazione di una ideologia: più precisamente, del relativismo radicale “tribalista” contemporaneo, con la sua immancabile retorica politicalcorrettista fatta di “lingua di legno”, censure e delegittimazioni. Una ideologia che, come tutte, costruisce una sua propria realtà alienata - una visione del mondo para-religiosa paganeggiante - dividendo poi l'umanità tra fedeli e infedeli, devoti ed eretici/blasfemi, e creando continuamente casi “esemplari” per la predicazione, la propaganda, il disciplinamento delle menti alla dottrina. Le grandi organizzazioni sportive nazionali ed internazionali rientrano pienamente nella rete delle istituzioni transnazionali politiche, socio-economiche, mediatiche, culturali-accademiche globali, intrecciate e cementate tra loro appunto da un collante essenzialmente ideologico per consolidare il potere delle loro élites dirigenti. Le loro leadership, in particolare nel calcio, hanno utilizzato a tale scopo con grande astuzia un pretesto labilissimo, abilmente montato dai media a loro osservanti: le tensioni tra le tifoserie all'interno dei tornei nazionali e in quelli internazionali.

Quelle tensioni, su cui si scaricano conflitti e frustrazioni sociali di ceti marginali si nutrono spesso di reciproci stereotipi offensivi veicolati dai gruppi “ultrà”. Bene, quegli stereotipi sono stati catalogati dai dirigenti della FIFA e della UEFA tout court come espressione di “razzismo” - benché esprimano rivalità più o meno artificiose che variano da quelle infracittadine agli “scontri tra civiltà”. E su questa base, da quasi un decennio, sono state costruite colossali, martellanti campagne di “pubblicità progresso”, supportate da testimonial d'eccezione obbligati come i fuoriclasse più famosi, predicanti lo equal game, la lotta alle discriminazioni, il “rispetto”, neanche sui campi di calcio fosse in corso una sorta di guerra civile mondiale; quando tutti possono constatare come il calcio sia, al contrario, un classico esempio di contesto in cui persone di provenienze culturali anche molto diverse convivono con un alto grado di armonia e stima reciproca. Sicché chi viene bombardato da questa propaganda a stento comprende di cosa si stia parlando.

Ma alle élite ideologizzate importa innanzitutto far passare la dottrina, il credo, i dogmi su cui tutti d'ora in poi saranno costretti a giurare, e che saranno costantemente rafforzati, appunto, da “casi” da creare a tavolino, occasioni per scatenare le folle globali di fedeli in regolari, orwelliani “due minuti d'odio” ai danni del malcapitato di turno. E' in questo contesto che si comprendono cerimoniali incredibili, diventati prassi: come il fatto che sui campi della Premier League inglese dalla primavera scorsa ad ogni partita i giocatori vengono fatti inginocchiare nel gesto reso famoso dal movimento Black Lives Matter, adottando quindi obbligatoriamente per ogni squadra e giocatore come gesto simbolico dell'essenza stessa dello sport il segno di riconoscimento di un movimento politico di estrema sinistra d'oltreoceano. E si comprendono ancor meglio se si tiene conto del fatto che la FIFA, sotto la presidenza di Gianni Infantino dal 2016, ha puntato decisamente sull'appoggio delle federazioni dei paesi extraeuropei - allargando i campionati mondiali addirittura a 48 squadre - e anche attraverso la simbologia antirazzista non perde occasione di strizzare loro l'occhio per rafforzare il loro consenso.

Ma non è tutto. Una volta fatto passare il principio che lo sport è pieno di razzisti e che bisogna combatterli incessantemente, l'originario pretesto della violenza sugli spalti viene messo in un angolo, e la dottrina si riempie di ulteriori contenuti, nuovi articoli di fede da far passare nel “pacchetto” e far accettare in blocco. Il “razzismo” da combattere diventa non più soltanto l'”offesa” verso un colore di pelle, un'etnia, una cultura, ma anche verso l'uguaglianza “di genere”, nonché – poteva mai mancare? - verso l'onnipresente “omofobia”, che sarebbe, chissà dove e chissa come, un'altra terribile piaga dello sport.

La conclusione è ferrea: se pratichi il calcio, lavori nel suo ambito, lo segui come tifoso devi necessariamente accettare in blocco la narrazione del progressismo relativista politicamente corretto, cioè essere d'accordo senza riserve con una visione del mondo multiculturalista, con l'agenda femminista e con quella Lgbt. Pena l'emarginazione, l'esclusione, il pubblico ludibrio.