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PROCESSO AGLI ANTIFASCISTI

Budapest, il senso dell'onore in un paese occupato due volte

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Perché una manifestazione annuale neonazista a Budapest? È questo evento, alla base del processo a Ilaria Salis. È incomprensibile per chi, nel 1945, è stato liberato. Non altrettanto per chi è stato occupato due volte.

Cultura 03_02_2024
Budapest "liberata" nel 1945

Come mai esiste una marcia annuale neonazista a Budapest? È il tema più trascurato fra tutti i servizi che riguardano l’arresto e il processo di Ilaria Salis, su cui l’Italia sta trattando con il governo ungherese chiedendo di trasferirla in patria, agli arresti domiciliari. La maestra milanese, assieme ad altri militanti antifascisti, era andata a Budapest proprio per manifestare contro il Giorno dell’Onore, un evento annuale, organizzato dall’associazione Legio Hungaria, a cui partecipano molti movimenti di estrema destra europei, fra cui il Movimento di Resistenza Nordico, Skins4Skins, Die Rechte, Sangue e Onore, gruppi metal neofascisti e altri personaggi borderline, al confine con il terrorismo di destra. La manifestazione è comunque permessa e, a parte un divieto nel 2022, si è sempre svolta regolarmente, l’11 o il 12 febbraio (a seconda delle annate).

In Italia, così come nel resto dell’Europa occidentale, una manifestazione simile sarebbe impensabile. In Ungheria è legale e periodica. E non per colpa del governo Orban, questa volta. La prima celebrazione del Giorno dell’Onore risale infatti al lontano 1997, organizzata da un estremista di destra, Istvan Gyorkos, rifondatore del Partito Nazionalsocialista ungherese (poi ribattezzato Fronte Nazionale Ungherese), attualmente in carcere per aver sparato a un poliziotto. Già dalle premesse appare dunque evidente il carattere della manifestazione, ai confini della legalità, ai margini della politica estremista. Le autorità l’hanno comunque tollerata, questa giornata, sia i governi di sinistra, sia i governi di destra, anche prima che Orban si imponesse sulla scena politica nazionale.

La legge dell’Ungheria è chiara sul passato totalitario: vietato il negazionismo, vietato il giustificazionismo, vietate l’apologia così come la banalizzazione dei crimini totalitari della Seconda Guerra Mondiale. E per crimini totalitari, si intendono, in Ungheria: sia quelli del regime nazista che quelli del regime comunista. Vietato, dunque, glorificare chi era al potere prima del 1945 e dopo. Gli organizzatori della manifestazione annuale di febbraio negano di essere nazisti, anche se pochi dei loro ospiti stranieri lo nascondono. Comunque, evidentemente, si è creato, negli anni, un equilibrio con le autorità e la polizia, i simboli più espliciti non vengono mostrati in pubblico. Le uniformi naziste ci sono, ma sono quelle storiche, dunque rientrano nel novero della “rievocazione”.

Dal 2017, su iniziativa di gruppi ungheresi di sinistra e democratici, sono state intentate cause per cercare di bandirla definitivamente. La Corte Suprema ungherese ha sempre respinto questi ricorsi, difendendo la libertà di manifestazione, nei limiti della legge. Tranne che nel febbraio 2022, quando la sospese per queste ragioni: «Si prevede la presenza di gruppi estremisti a questo evento. Lo svolgimento dell’evento in loro presenza può essere accompagnato da un notevole disturbo all’ordine e alla quiete pubblica». Nel 2023, tuttavia, la tradizione è ricominciata.

Gli antifascisti arrestati sono accusati di aver aggredito, a colpi di martello e manganello, persone scelte a caso, al di fuori dei cortei, lontano dalla polizia, in cinque episodi di violenza avvenuti fra il 9 e l’11 febbraio 2023. L’unico criterio con cui sono state selezionate le vittime da attaccare, secondo gli inquirenti, è stato quello del loro modo di vestire. In puro stile anni di piombo, sono stati aggrediti, da gruppi di antifascisti mascherati, persone colpevoli di indossare una mimetica, un bomber, anfibi da militare o avere la testa rasata. Fra i feriti gravi, anche due polacchi, figli del paese che per primo venne invaso dai nazisti. L’intento intimidatorio degli antifascisti è stato chiaro: nessuno può essere al sicuro in una città che tollera una marcia di nazisti. Visto che con le buone (in tribunale) non si è ottenuto il divieto, allora si picchiano i singoli manifestanti, o chi viene ritenuto tale. Altrettanto esemplare intende essere la reazione delle autorità. Non per difendere l’estrema destra, ma per ribadire il principio che l’ordine pubblico deve essere fatto rispettare nei confronti di tutti. «Il messaggio della Questura di Budapest è chiaro: non tollereremo attacchi contro le persone nella capitale, siano essi ideologicamente motivati o meno. Utilizzeremo tutti i mezzi consentiti dalla legge per identificare e perseguire i responsabili, indipendentemente dalla nazionalità, dall'ideologia o dal sesso», si legge nel comunicato della polizia al momento degli arresti.

Ma come mai, appunto, esiste un raduno annuale neonazista a Budapest? Perché è così tollerato al punto di trasformarsi in una tradizione che ha superato il quarto di secolo? L’11 febbraio non è l’equivalente del nostro 25 aprile. Si è trattato di un momento traumatico per la nazione ungherese. Come l’Italia, anche l’Ungheria era alleata della Germania nazista dal 1940. Era un alleato strategico, oltre che partecipare alla campagna di Russia con le sue divisioni, era importante per i tedeschi perché forniva loro il petrolio, fondamentale per alimentare le divisioni corazzate. Il regime autoritario del reggente (in assenza del sovrano asburgico) Miklos Horthy, era comunque riuscito a mettere al riparo la popolazione ungherese dagli aspetti peggiori dell’alleato tedesco. Ad esempio, gli ebrei ungheresi non venivano deportati e Budapest si era trasformata in una sorta di rifugio per le comunità ebraiche dell’Europa centrale. Questo equilibrio si spezzò all’inizio del 1944, quando Horthy, considerata persa irrimediabilmente la guerra contro l’Urss decise di negoziare l’armistizio con gli Alleati, per una pace separata. Hitler, come aveva fatto un anno prima con l’Italia, invase l’alleato recalcitrante. Dopo mesi di sovranità limitata, Horthy (che non aveva cessato di negoziare segretamente un armistizio) venne deposto in ottobre e sostituito da un regime puramente nazista, direttamente controllato da Berlino, guidato da Ferenc Szalasi.

Alla fine del conflitto, dunque, l’Ungheria era occupata dai nazisti a tutti gli effetti. Budapest venne assediata nell’inverno del 1944-45 dall’Armata Rossa. L’11 febbraio, l’ultima sacca di resistenza, costituita da truppe ungheresi collaborazioniste e da tedeschi, arroccati nel castello di Buda, invece di arrendersi decise di provare a spezzare l’accerchiamento e raggiungere le linee tedesche. I sovietici intercettarono i soldati in ritirata e li uccisero quasi tutti. È il “giorno dell’onore” la ritirata catastrofica di quell’11 febbraio, quello che i gruppi di estrema destra celebrano dal 1997. Per molti ungheresi, quei soldati sterminati furono “eroici difensori dell’Europa”. Ma lo pensano, appunto, perché dopo quel giorno arrivarono altri occupanti. I sovietici iniziarono, da subito, le loro purghe sanguinose. Quasi a sottolineare la continuità fra un regime e l’altro, insediarono il quartier generale della polizia politica in quella che era stata la sede della Gestapo nazista, il palazzo oggi conosciuto come “casa del terrore”. Iniziarono gli arresti arbitrari, non solo di coloro che avevano collaborato con il regime nazista, ma anche tutti coloro che non erano comunisti.

In Italia, dopo il 25 aprile, ricominciò ben presto la vita democratica. In Ungheria, dopo l’11 febbraio, si tennero elezioni farsa, sotto il controllo dell’apparato repressivo sovietico che impose di rifare e rifare ancora la votazione (arrestando, nel frattempo, tutti i vincitori non comunisti) finché il Partito Comunista non rimase praticamente senza rivali. In Italia dopo il 25 aprile, iniziò ben presto il boom economico. In Ungheria, dopo l’11 febbraio, la miseria venne garantita anche a quelle classi sociali che prima della guerra stavano bene: espropri, nazionalizzazioni e collettivizzazione delle terre furono condotte con metodi brutali. In Italia, dopo il 25 aprile, la Democrazia Cristiana governava, soprattutto dopo le prime libere elezioni che consacrarono la vittoria del partito cattolico di massa. In Ungheria, i cattolici erano perseguitati, il vescovo József Mindszenty finì ben presto in carcere, dove gli aguzzini facevano di tutto per impedirgli di pregare. In Italia, nel dopoguerra, i comunisti poterono votare e farsi eleggere. In Ungheria, persino i comunisti finirono vittime delle purghe di Stalin. Quando, nel 1956, Imre Nagy sperò della destalinizzazione promessa da Chrushev, quando provò a staccare il suo paese dal Patto di Varsavia, venne invaso di nuovo, da un esercito sovietico. Morirono a migliaia, civili e militari, nell’eroico ma sfortunato tentativo di resistenza.

Quel che non possiamo capire, nella nostra Italia antifascista e liberata, è la memoria degli ungheresi. Così come non possiamo capire la memoria di quasi tutti i popoli dell’Europa centrale che non vennero mai liberati, ma occupati di nuovo.