Brutto sogno di una notte di mezza Expo
Lo scrivente è stato all’Expo. Avvertenze per l’uso di questo articolo: lo scrivente non è un expologo né un intenditore di questioni alimentari. In merito a questo ultimo punto si può solo professare un ignorante entusiasta della buona cucina. Mi sono recato presso la spianata dell’esposizione universale il 31 luglio scorso. Tre mesi erano trascorsi dall’apertura e tre mesi dovevano passare dalla chiusura.
Lo scrivente è stato all’Expo. Avvertenze per l’uso di questo articolo: lo scrivente non è un expologo né un intenditore di questioni alimentari. In merito a questo ultimo punto si può solo professare un ignorante entusiasta della buona cucina. Mi sono recato presso la spianata dell’esposizione universale il 31 luglio scorso. Tre mesi erano trascorsi dall’apertura e tre mesi dovevano passare dalla chiusura. L’Expo era esattamente al giro di boa. Non essendo un esperto ho tentato di godermi passivamente la giornata saltando da un padiglione all’altro seguendo come unico criterio quello di evitare le code (il record è detenuto dal Giappone: 50 minuti di attesa minima, per una giornata di bassa affluenza). Il diario di quel 31 luglio è diviso in due colonne. Sulla prima ho annotato mentalmente alcune curiosità. Sulla seconda un paio di impressioni di fondo, più di carattere generale.
Iniziamo dalla prima colonna. Entrando nel padiglione dell’Oman si scopre che il profeta Maometto ha suggerito (o forse imposto) che il buon mussulmano ogni giorno si cibi almeno di sette datteri e beva un bicchiere di latte. Passando nel padiglione degli Emirati Arabi – dove la fila di persone per finalità estetiche si dipana da un ingresso posteriore – la versione coranica viene edulcorata. E’ solo una tradizione popolare che raccomanda questa dieta di datteri e latte. Niente profeti all’orizzonte, please, siamo moderni. Lo spazio espositivo degli Emirati Arabi ha riempito da solo buona parte della prima colonna. Innanzitutto il padiglione: davvero splendido. Pareti sinuose in cemento e vetro resina che riproducono sulla superficie il disegno delle dune di sabbia e dall’alto paiono creste di queste stesse dune. Ma qui c’è l’inciampo. Chi hanno chiamato per realizzarlo? Non un autoctono bensì l’archistar Norman Foster, suddito di Sua Maestà e non di Sua Sceicchitudine. Insomma gli arabi avranno pure i petroldollari ma con questi non ci puoi comprare il talento e l’inventiva.
La visita al padiglione è rigorosamente visita guidata e la stessa termina in una sala cinema in cui viene proiettato un film di produzione locale, tragico nella forma e pessimo nei contenuti. Per farla breve a dar retta alla pellicola gli sceicchi se la passano male perché non piove mai, terre coltivate non ce ne sono e per tirar grande una pianticella di grano ci vuole un sacco di energia. Allora gli scienziati arabi stanno studiando con attenzione la vita di un’alga marina che misteriosamente potrebbe produrre energia verde utile per le coltivazioni. Un’alga marina? E il petrolio? Non è fonte primaria di energia per costoro, tanto che lo esportano in tutto il mondo? Non una parola, dicasi una, sull’oro nero. E poi come si fa a piangere miseria perché si è in pieno deserto quando l’importazione di cibo per gli uomini con il kefiah in testa e molti soldi nella tunica non è di certo un problema?
Penultima annotazione da mettere nella prima colonna. Girando tra i padiglioni africani o del Medio Oriente c’è davvero da ringraziare Gesù. Gli abiti, i costumi e le tecnologie di questi Paesi si sono fermati più o meno all’anno Mille. Il mulo che tira un carretto è forse il mezzo di trasporto ancora più usato in mezzo mondo. In queste nazioni non c’è stato progresso come in Occidente e laddove c’è tecnologia è tecnologia occidentale. La povertà di mezzi ha sicuramente un suo peso, ma non è la sola voce da tenere in considerazione. Insomma ci si rende plasticamente conto che il cristianesimo ha valorizzato quell’approccio aristotelico che vedeva il reale come amico e come opportunità offerta da Dio all’uomo per vivere bene.
Ultima nota per la prima colonna: nel padiglione inglese hanno costruito una sfera di tubi innocenti in cui puoi sentire amplificato e in diretta il rumore di un alveare che se ne sta ronzando da qualche parte nel Regno Unito. Il suono è assai suggestivo – quasi un canto primordiale, tanto profondo e grave che pare venga dalle viscere della terra – ma non si sa bene cosa c’entri con il tema dell’Expo. Ultimo post-it: il padiglione più misero, che a mani basse vince la maglia nera, è quello della Città del Vaticano. Dentro ci sono una manciata di quadretti insignificanti e un tavolo su cui si proiettano delle immagini altrettanto insignificanti. Un padiglione in versione pauperista.
Ma passiamo alla seconda colonna. In una sola frase cosa è l’Expo? Pare sia una via di mezzo tra Gardaland e la Fiera del gusto. L’occhio e il palato sono di certo appagati. Soprattutto le strutture dei padiglioni esprimono spesso un’estetica contemporanea di grande spessore e di grandissima novità. Purtroppo sono dei contenitori vuoti. Le esposizioni universali non devono essere per i Paesi partecipanti una carta di identità della loro cultura, tradizioni etc. in questo caso declinati secondo i criteri gastronomici. Invece l’Expo milanese è caduta in questo errore. Vai ad esempio nel padiglione russo e ti accorgi che è monopolio della grandi industrie della vodka e del caviale. Vai in quello degli Usa – assolutamente deludente – e ti pare di entrare in un grande McDonalds (sorge il dubbio che le grandi nazioni abbiano bellamente snobbato l’evento giocando al ribasso). Gli spazi espositivi ti saturano con approccio sinestetico tutti i sensi, ma non ci sono contenuti. Ma non è forse sintomo eccellente della nostra epoca così sensista?
Le esposizioni universali dovrebbero essere invece fucine di grandi idee, di pianificazioni di prospettive di ampio respiro, di scommesse su intuizioni che guardano al futuro per scoprire cosa ci possa essere di sorprendente dietro l’angolo del tempo prossimo a venire. Grazie a questa impostazione a larghissime vedute le città ospitanti vengono davvero rivoluzionate e riescono a riscattarsi. Un esempio cristallino è stato Barcellona. Mutata non solo nell’urbanistica, ma anche nell’anima dall’Expo del 1992. Girando per i padiglioni invece pare di assistere all’esposizione degli stereotipi. Anzi ti sembra di ritornare agli ultimi giorni di maggio al liceo, quando ti mettevi sotto a studiare, ma appunto solo all’ultimo momento, tanto per strappare un dignitoso sei in latino e greco e non essere rimandato.
Ecco buona parte dei padiglioni che lo scrivente ha visitato - forse nemmeno un terzo, mi corre l’obbligo però di avvertire – pare che si siano limitati a fare con diligenza il compito a casa assegnato dal commissario Giuseppe Sala. C’è poi un’altra e ultima considerazione da mettere nella seconda colonna. Passando da nord al sud del pianeta e da ovest ad est ti aspettavi di cambiare aria, di respirare mondi diversi. Nulla di tutto questo. Si avvertiva invece che c’era un minimo comun denominatore tra tutti i Paesi, un qualcosa di sempre uguale a se stesso e che stonava perché monotono e fuori posto. Si trattava forse di questo. Tutti i Paesi si sono occidentalizzati perlomeno nella comunicazione (sarà globalizzazione anche questa?). La semantica tra tutti i padiglioni è la medesima, il registro è standardizzato nei suoi moduli espressivi: video che ti raccontano in due parole le tradizioni del paese, qualche brochure, visite guidate, assaggi dei prodotti locali assai salati per il palato del tuo portafogli, la tecnologia che è la chiave di volta per la felicità dell’umanità, il pianeta che piange a causa di questo ospite buzzurro che è l’uomo ma potrebbe diventare per lui il paradiso in terra solo se si mettesse in ginocchio davanti ad una pianticelle di mais biologico, un itinerario dentro il padiglione che è sempre lineare e che va dalla A alla Zeta (ed invece per le culture orientali e medio orientali il tempo è circolare e quindi infinito), le modalità di ricevere i visitatori consone ai costumi europei. Forse tutto questo è stato voluto perché la maggior parte dei visitatori è occidentale, ma così si candeggiano le peculiarità nazionali.
Il tour si è concluso di notte davanti all’Albero della Vita, simbolo paganissimo che vorrebbe scalzare l’albero della conoscenza che è ancora vivo e vegeto in Paradiso e soprattutto l’albero della croce di Cristo, l’unica “pianta” da cui germina la sola vita che conti. Quella eterna. Alla sera l’albero della vita si anima per uno spettacolo dal sapore di plastica: molte luci al neon, fuochi artificiali, fumogeni colorati, spruzzi d’acqua. Un tarocco dei fastosissimi giochi d’acqua rinascimentali che ricorda tanto alcune malinconiche giostre del luna park o un transformer di bassa lega. E poi tutti a casa per provare quei famosi datteri comprati in un pezzetto di Oman, ormai frazione di Rho. Un brutto sogno di una notte di mezza Expo.