Brescia: altolà del vescovo alla Messa "creativa"
In una lettera pubblica mons. Pierantonio Tremolada si è detto «sconcertato» e «rattristato» per le immagini della bizzarra celebrazione di don Fabio Corazzina. Con autentica paternità ricorda al sacerdote che l'Eucaristia è dono e mistero da trattare con riverenza, chiedendogli un gesto concreto di riparazione. E anche noi laici abbiamo bisogno di padri, non di intrattenitori.
«L’Eucaristia è il bene più prezioso che la Chiesa possiede» e pertanto non può venire manipolata a piacimento, ma «domanda anzitutto riverenza, un cuore grato e prima ancora ammirato». È questa, in breve, la sostanza dell’ampia e profonda lettera con cui il vescovo di Brescia, mons. Pierantonio Tremolada, è intervenuto a pochi giorni dalla Messa “creativa” celebrata l’11 settembre a Mazara del Vallo dal sacerdote bresciano don Fabio Corazzina.
Lo stesso celebrante ne ha innescato la diffusione via social, al punto da richiedere un pubblico chiarimento da parte del vescovo. Per chi già non ne avesse letto sulla Bussola o visto le immagini, don Corazzina ha celebrato in tenuta da ciclista, con solo una stoletta arcobaleno, improvvisando a mo’ di intrattenimento e utilizzando un bicchiere di plastica al posto del calice, con un tale grado di superficialità che alla fine le ostie consacrate sono volate via insieme a quel che restava del rito.
Il 19 settembre mons. Tremolada ha indirizzato al sacerdote una lettera ferma e paterna (che si può leggere integralmente sul sito diocesano), dichiarandosi «sconcertato e rattristato» e considerando «molto grave quanto avvenuto». Il vescovo va al cuore del problema: un fraintendimento di cosa sia la Messa, «il bene più prezioso che la Chiesa possiede: dono incommensurabile del suo Signore, mistero di grazia e di santità», scrive mons. Tremolada, sottolineando: «Mistero, appunto», che esige un atteggiamento «di assoluto rispetto e di interiore devozione: ricordiamo l’esempio dei grandi santi».
Al contrario, non c’è un «diritto di agire con disinvoltura o addirittura con trascuratezza e superficialità», che mons. Tremolada (e non solo lui) riscontra in molti aspetti della Messa di don Corazzina: «il contesto, l’abbigliamento, il modo di trattare le sacre specie, la libertà nel formulare le orazioni e la stessa preghiera eucaristica, alcune battute fuori luogo e infelici. Non si può condividere tutto questo». Nella lettera emerge non un blando richiamo, ma la lucida percezione che manipolare la forma può far perdere di vista la sostanza.
Il vescovo si sofferma anche sulle «conseguenze di un simile atto», sullo «sconcerto» e il «dolore» provocati «in tante persone che amano profondamente l’Eucaristia e la pongono al centro della loro vita di fede». Insomma, è accaduto qualcosa di più profondo di una “semplice” (si fa per dire) omissione o modifica, un travisamento che ha inferto una ferita e questa esige riparazione. E il vescovo se ne fa carico in prima persona.
«Qui occorre davvero fare ammenda e chiedere umilmente scusa», prosegue, precedendo l’ammenda che spetterà al sacerdote: «Ti presto io la voce, lo faccio io a nome tuo nei confronti di tanti che si sono scandalizzati e mi aspetto che tu condivida con me questo bisogno». Ma il presule va oltre e chiede al suo presbitero un segno tangibile di aver capito l’antifona: «Un gesto penitenziale, che esprima la consapevolezza della tua responsabilità e in qualche modo intervenga a riparare quanto accaduto». La lettera si conclude «con la schiettezza che proviene da un affetto sincero» – che del resto traspare in tutto il testo sin dall’inizio – esortandolo a «vigilare affinché tutto questo non si ripeta», invitandolo a riscoprire «il vero senso liturgico» e ricordando che «la buona fede non è sufficiente a giustificare quanto accaduto», poiché è in gioco «un bene più grande di noi».
Mons. Tremolada in queste righe dà prova di una paternità autentica, che andrebbe riscoperta anche in ambito laico, che non degenera in accondiscendenza ma che si rivela in grado di coniugare autorevolezza e amorevolezza. Tanto più importante nella nostra epoca che sembra voler fare a meno dei padri e di ciò che la paternità incarna e trasmette in termini di assunzione di responsabilità. Responsabilità di cui il presule si fa carico in prima persona e che non significa solo pagare quando si sbaglia, ma prima ancora far bene e con rispetto il compito affidato, che sia il lavoro o un ministero più alto, invece di scambiare tutto per un gioco anche quando l’età della pensione è ben più vicina di quella dei giocattoli.
Ma anche noi laici abbiamo bisogno di padri, non di intrattenitori. E non certo per smania di perfezionismo, ma proprio perché peccatori e disorientati. Nessuno pretende dal sacerdote la perfezione, bensì l’umiltà di saperci indicare Qualcuno che sta più in alto di lui, dei suoi hobby, delle sue personali trovate che lasciano il tempo che trovano. Quando la fede vacilla, non sarà il protagonismo di un prete a sostenerci.