Breivik, se la tortura è in cella “deluxe”
Lo Stato norvegese condannato a indennizzare il criminale neonazista che nel 2011 uccise 77 persone. Secondo i giudici la sua detenzione vìola la convenzione europea sui trattamenti inumani. Ma la sua cella è dotata di palestra, playstation e ogni comfort. Ormai il male pretende di essere riconosciuto come bene.
A norma dell’art. 3, “Proibizione della tortura”, della Convenzione Europea sui Diritti dell’Uomo, lo Stato norvegese è stato recentemente condannato da un tribunale di Oslo a indennizzare con 330 mila corone (circa 35 mila euro) Anders Behring Breivik, il criminale neonazista che sta scontando la condanna a 23 anni di reclusione inflittagli per avere nel luglio 2011 massacrato a freddo 77 persone.
Breivik aveva chiamato in causa lo Stato norvegese per i primi cinque anni di detenzione da lui trascorsi in totale isolamento sostenendo che ciò viola il citato art.3 della Convenzione ove si sancisce che “Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”. E il tribunale di Oslo gli ha dato ragione. L’uomo è detenuto in carcere ma non in una cella bensì in un trilocale di 31 metri composto di una stanza da letto, una stanza palestra, una stanza da lavoro, nonché un angolo cucina e servizi. Dispone di un televisore, di una playstation e di un computer seppure senza collegamento a Internet. Breivik chiedeva pure che gli venisse tolto il divieto di contatti con l’esterno, che comunque non è assoluto, ma il tribunale non glielo ha concesso.
Non sappiamo al momento se tale sentenza sarà definitiva o se verrà riformata in un eventuale successivo grado di giudizio. Già così e già di per sé l’episodio conferma tuttavia quanto il caso estremo di questo criminale, almeno all’apparenza né scosso né pentito dell’enormità di quanto ha fatto, stia mettendo alla prova la coscienza comune non solo della Norvegia ma dell’intero Occidente contemporaneo con la sua crescente incapacità di tenere per ferma la distinzione tra bene e male; con tutto ciò che ne consegue sul piano sia personale che sociale, sia individuale che politico.
Sarebbe infatti troppo facile esimersi da questa riflessione dicendo che queste sono cose che possono accadere soltanto in un paese come la Norvegia. Paese tanto molto ordinato quanto molto periferico, la Norvegia, come il mondo nordico in genere, è più di altri esposto alle “legittime” conseguenze estreme di tale filosofia. Questa però serpeggia anche in tutto il resto dell’Occidente, Italia compresa. Quasi ogni giorno giornali, telegiornali e “talk shows” ce lo confermano.
D’altra parte non solo in Italia e nei maggiori Paesi europei ma anche nella stessa Scandinavia ci fu chi lanciò tempestivamente l’allarme. Merita ad esempio di venire qui citato Henrik Stangerup (1937-1998), romanziere e cineasta, figura di grande rilievo della cultura danese, e il suo celebre romanzo L’uomo che voleva essere colpevole, uscito con grande successo nel 1973; e dal 1990 disponibile anche in versione italiana grazie a Iperborea, editore milanese che dedica il suo catalogo alla letteratura dei paesi nordici e adesso anche dei paesi baltici. L’uomo che voleva essere colpevole è ambientato in uno Stato… di fantasia (ma in effetti oggi sempre meno tale) “che si è trasformato in una gabbia di conformismo, regno del consenso e dell’eufemismo, in cui tutto è pianificato e obbligatorio, compresa la felicità”.
Qui una sera al culmine di una lite un uomo uccide la propria moglie. Siccome però è questo un mondo in cui uccidere non è una colpa ma solo un sintomo di insufficiente adattamento sociale, Torben, l’assassino, viene sottoposto a cure psichiatriche e rimesso in libertà. Rifiutando tuttavia le regole di un sistema che nega la responsabilità individuale, Torben si ostina a voler essere giudicato e punito per quel che ha fatto. L’uomo che voleva essere colpevole diventa allora la storia dell’inutile e sempre più assurdo tentativo del protagonista di dimostrare la propria colpa; e quindi dell’angosciante senso di isolamento che gliene deriva, della spirale di dubbi e di incertezze, e infine dello sfaldarsi della sua identità e della realtà stessa. E’ infatti questo il baratro, ci indica Stangerup, verso cui l’uomo si avvia quando rifiuta la dimensione etica e si illude di delegare alla scienza la soluzione dei problemi morali.
Come mi spiegò nel 1991 durante un’interessante conversazione al Meeting di Rimini, di cui in quell’anno era uno dei relatori, Stangerup, studioso ed estimatore di Kierkegaard, si riconosceva in un filone di pensiero luterano dai contenuti paradossalmente spesso non lontani dall’esperienza cattolica. E’ l’ambiente cui avevano appartenuto figure come il regista Carl Theodor Dreyer, autore tra l’altro di Ordet (La Parola), e Karen Blixen da un’opera della quale è tratto il soggetto del film “Il pranzo di Babette”.
Con Breivik, con la sua volontà omicida ben consapevole e mostruosamente lucida, e con la sua fredda capacità di fare leva pro domo sua sulle fragilità della cultura giuridica e civile dell’Occidentale contemporaneo, si delinea un ulteriore passo in avanti verso l’abisso che già Stangerup aveva denunciato. Il male non accetta più di venire semplicemente ignorato, ma pretende di porsi e di venire riconosciuto come bene. Non sarà il caso di tirarne finalmente qualche seria conseguenza?