Bolton ha fatto il suo tempo, perciò Trump l'ha licenziato
Dietro la decisione di licenziare il consigliere per la Sicurezza nazionale degli Usa John Bolton, ci sarebbe un'affermazione della politica estera di Trump e Pompeo. Una linea basata sul concetto di "America First" che fa e disfa le alleanze in modo flessibile in un mondo mutevole. L'intransigenza di Bolton appariva anacronistica.
Le dimissioni-licenziamento del Consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti d’America, John R. Bolton, formalizzate il 10 settembre, erano nell’aria da un po’, e questa non è una grande novità. La ragione principale - niente novità nemmeno qui - è la netta diversità di prospettive fra lui e il Segretario di Stato, Mike Pompeo, in politica estera. Ma sarebbe facilone cadere nella tentazione di ridurre la questione a una ennesima puntata dello scontro fra le due “correnti” interne alla Casa Bianca, quella “globalista” (Bolton) e quella “isolazionista” (Pompeo, ovvero lo stesso presidente Donald J. Trump).
A prescindere dall’uso gergale, e quindi superficiale, delle espressioni “globalismo” e “isolazionismo”, che come le si mettono su carta stanno, ad autorizzare quella lettura parrebbero in verità i curricula delle dramatis personae. Bolton - si dice - è un neoconservatore, e quindi in quanto tale un “globalista” a cui è cara l’ideologia dell’“esportazione della democrazia” American style (semmai i neocon l’abbiano predicata), mentre Pompeo - e dietro di lui il suo dominus Trump – rappresenterebbe l’“isolazionismo” tipico di ogni “sovranismo” (terza espressione oggi facile da scrivere soprattutto quando si fa fatica a definirne i contenuti). La realtà è invece più complessa.
Il Bolton presunto “globalista” è infatti un’incarnazione tipica del “nazionalismo” statunitense per molti tratti davvero “sovranista”. Memorabile quando indossò più che volentieri la definizione che Pamela Geller e Robert Spencer (altri esponenti della nebulosa neocon) forgiarono per Barack Obama, descritto nemmeno come un cattivo presidente americano, magari il più cattivo, ma addirittura come il primo presidente postamericano in ragione del suo… “globalismo”. Certo, la cifra di Bolton è il decisionismo spinto dei falchi, ma indubitabilmente in chiave "amerikana", non certo “mondialista” (quarta espressione utile quando non si sa che pesci pigliare). Per contro Pompo è pur sempre l’ex capo della CIA, che certo non è un beniamino degli “isolazionisti” anche se Trump lo ha voluto alla Segreteria di Stato voluto al posto di Rex Tillerson (che resta forse l’unico vero “globalista” di questo quadro). Proprio come Bolton era stato voluto da Trump in sostituzione di Herbert R. McMaster. I ruoli, insomma, se non invertiti appaiono molto ingarbugliati. L’uscita di scena di Bolton ha infatti un altro significato.
Primo elemento. Nel suo ruolo di Consigliere per la sicurezza nazionale Bolton ha sempre voluto agire un po’ da “ministro degli Esteri ombra”. Facendo a meno di lui, Trump ribadisce invece che la linea della Casa Bianca sugli Esteri è quella di Pompeo. Ma qual è la linea Pompeo? E soprattutto esiste una linea politica chiara, negli affari esteri, della Casa Bianca? A onta dei molti detrattori di Trump, quella linea esiste. Che sia sempre chiara è un altro discorso, ma è comunque visibile.
Secondo. Tutto parte dalla prospettiva “America First”, che oggi significa riportare gli Stati Uniti alla primazia mondiale in tutti i campi, politico, economico, commerciale, industriale, militare. A molti (compresi diversi fan stranieri del suo “sovranismo”) può non piacere, ma è innegabilmente così. Ora, per gli statunitensi la primazia statunitense non è certo una novità. Ma in uno scenario post-Guerra fredda, e soprattutto post-Undici Settembre, cioè nel quadro scomposto dello «scontro delle civiltà» (una fotografia dell’esistente, e mai un auspicio, anzitutto nel citatissimo e poco letto Samuel P. Huntington [1927-2008]), la primazia statunitense ha un significato diverso da quello che aveva quando nacque l’America First Committee nel 1940, durante la Guerra fredda (quando l’espressione fu accantonata) e quando Patrick J. Buchanan ne riscoprì lo spirito nella campagna elettorale per le presidenziali del 1992. Cioè il mondo non solo non è più bipolare come ai tempi del confronto con l’Unione Sovietica, ma non è nemmeno più quello, semmai lo sia stato, degli “Stati Uniti contro mondo islamico”.
Per dirne una (davvero solo una) lo scontro, nell’islam, fra mondo sunnita e mondo sciita, per tradizionale che sia, conosce oggi dimensioni e risvolti totalmente nuovi che rendono impossibile affrontarlo con i criteri di ieri. Soprattutto nel momento e nella misura in cui quello scontro interno all’islam si internazionalizza, coinvolgendo forze e potenze né sciite né sunnite. Gli Stati Unti, per esempio, sono da un lato avversari del mondo sunnita a guida saudita per la questione ancora irrisolta proprio dell’Undici Settembre, ma dall’altro sono al fianco di quel loro stesso avversario nel momento in cui il blocco sciita si salda con la Russia, e magari strizza un po’ l’occhio anche alla Cina.
In questo scenario tanto nuovo da non disporre ancora di mappe affidabili, mentre le alleanze rispettivamente né sunnite né sciite del blocco sunnita e del blocco sciita si mostrano sempre più spesso a geometrie variabili (è il caso evidente di Israele), Trump (o chi per lui) finisce per scoprire di avere alleati regionali insospettabili. È il caso proprio del mondo islamico (sunnita), in questo caso centroasiatico, indispensabile sullo scacchiere che più ora lo preoccupa, quello cinese.
Le minoranze (a volte vastissime) musulmane in Cina sono oggi oggetto di persecuzione spietata da parte del governo neo-post-comunista cinese, lo stesso che minaccia commercialmente Washington e che pone ipoteche da incubo sull’Internet del futuro (il 5G): in primis gli uiguri (secondo gli studi più aggiornati ve ne sono fino a tre milioni nei campi di detezione), ma anche migliaia di kazaki, tatari, kirghisi, uzbeki e tatari etnici abitanti nella Regione autonoma uigura dello Xinjiang (che gli uiguri preferiscono chiamare Turkestan Orientale). Perseguitati sono pure gli hui (il governo cinese li definisce una minoranza “etnica”, ma in realtà sono cinesi di etnia han musulmani), fino a ieri dipinti come i musulmani “buoni” (e giocati contro i musulmani “cattivi” uiguri proprio perché non etnicamente diversi). Il governo ateo di Pechino li perseguita perché appartengono a minoranze etniche (eslcusi gli hui) e perché sono religiosi, ma pure perché ostacolano localmente la “nuova globalizzazione” a dominazione cinese prospettata dalla faraonica “Belt and Road Initiative” (come comprarsi, cioè, mezzo mondo con il potere del cash).
Quarto. Mentre il mondo musulmano tace di questa tragedia, avvertendo il fiato sul collo della potenza cinese (con la sola parziale eccezione della Turchia, che ha legami culturali ed entici con gli uiguri), Washington si trova adesso fra la prosecuzione della lotta al terrorismo di matrice islamica e l’aiuto agli islamici perseguitati dai maggiori nemici degli Stati Uniti.
Quinto (e ritorno a Bolton/Pompeo). Tutto questo, e molto altro ancora, fa dunque dell’intransigenza di Bolton in politica estera una strategia sorpassata. Più adeguata è invece la linea Pompeo, la cui chiave di volta è la libertà religiosa. Ne sono esempi lampanti la Ministerial to Advance Religious Freedom, la cui seconda edizione a metà luglio ha radunato a Washington più di 100 fra capi di Stato, di governo e ministri degli Esteri; l’azione dell’ambasciatore per la libertà religiosa nel mondo Sam Brownback (che lavora con Pompeo); e l’istituzione della Commissione sui diritti inalienabili affidata a Mary Ann Glendon per combattere l’ideologia del gender nella ratio della libertà religiosa. Così, pur senza transigere, Pompeo “rischia” di farsi quegli alleati locali che la linea Bolton rende pressoché impossibile. Del resto è la medesima strategia adottata da Thomas Jefferson (1743-1826) quando scatenò la prima “guerra al terrorismo” sconfiggendo i pirati moreschi nel Mediterraneo nel 1802 grazie all’aiuto di popolazioni musulmane locali, e quella usata prima ancora di Annibale contro Roma.
Al bastone di Bolton, Pompeo aggiunge insomma la carota, indispensabile in un tempo storico mutato. Poi ci sono i personalismi, l’umano troppo umano, ma quella è un’altra storia.