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USA

Biden cambia politica nel Golfo, una svolta pro Iran

Benché non sia ancora chiaro se ci troviamo di fronte a una vera svolta, o solo a mosse propagandistiche, l'amministrazione Biden fa subito capire da che parte sta nel Golfo: stop agli aiuti militari a sauditi ed emiratini nella loro guerra dello Yemen, Houthi (sciiti, filo-Iran) riabilitati e nuovi accordi sul nucleare con Teheran.

- RIAPERTO IL CASO DANIEL PEARL di S. Magni

Esteri 08_02_2021 English Español
Sanaa (Yemen), manifestazione degli Houthi

Non è ancora chiaro se le iniziative dell’Amministrazione Biden nei confronti della crisi del Golfo che coinvolge Iran, monarchie sunnite e conflitto nello Yemen costituiscono un robusto cambio di rotta rispetto, non solo all’Amministrazione Trump, ma anche a quella di Barack Obama, o se si tratta di un fuoco di paglia reso necessario dal dogma dominante in casa Democratica di “cancellare Trump” e tutte le iniziative della sua presidenza.

Joe Biden ha delineato gli obiettivi a breve termine della sua politica estera, annunciando senza giri di parole che la "guerra in Yemen deve finire", definendola una "catastrofe umanitaria e strategica". E per raggiungere l'obiettivo, il presidente americano ha ordinato la fine del supporto americano all'offensiva saudita, basata soprattutto su aiuti logistici, addestrativi di condivisione dei dati d’intelligence e di fornitura di armi e mezzi.

Nei giorni scorsi, il segretario di Stato Usa, Antony Blinken, nella sua prima conversazione telefonica con il ministro degli Esteri saudita, Faisal bin Farhan, ha sottolineato come tra le "priorità chiave della nuova amministrazione americana" vi siano "la questione dei diritti umani e la fine del conflitto in Yemen". Blinken ha rincarato la dose cancellando gli Houthi dalla lista delle organizzazioni terroristiche, dove li aveva relegati Trump.

L'ordine della Casa Bianca di sospendere il supporto militare a sauditi ed emiratini si contrappone anche alla politica di Obama che, dal 2015, quando iniziò il conflitto yemenita in seguito all’insurrezione degli sciiti Houthi sostenuti dall’Iran, non ha mai lesinato commesse militari miliardarie e appoggio d’intelligence alla campagna militare guidata da sauditi, emiratini ed egiziani. Trump potenziò tale supporto nell’ambito di una strategia più ampia tesa a mettere all’angolo l’Iran colpendo i suoi alleati regionali (dalle milizie sciite irachene agli Houthi) e denunciando l’accordo sul nucleare di Teheran che Obama aveva firmato.

La decisione di Biden solleva qualche perplessità, non fosse altro perché il conflitto yemenita è oggi di minore intensità soprattutto per i civili (le vittime tra la popolazione sono scese del 73% tra il 2019 e il 2020). Inoltre interrompere il conflitto, garantendo agli Houthi di restare in armi, significa lasciare una minaccia costante puntata contro le monarchie arabe nel cuore della Penisola Arabica. Se gli USA caldeggiano un simile sviluppo della guerra yemenita, o non hanno le idee chiare, o non considerano indispensabile scongiurare la destabilizzazione della regione.

Nel suo rapporto sulla situazione nello Yemen del 16 giugno 2020, il Segretario Generale dell’ONU, Antonio Guterres, ha rimosso la coalizione a guida dell’Arabia Saudita dalla lista nera di coloro che hanno ucciso e ferito bambini nello Yemen, confermandovi invece il movimento sciita Houthi e il governo yemenita. Del resto l’ONU ha denunciato in più occasioni gli Houthi per l’arresto degli osservatori dell’ONU e l’arruolamento di bambini-soldato e del resto gli insorti yemeniti colpi sono con missili balistici le città saudite.

Le forze degli Emirati Arabi Uniti si sono quasi del tutto ritirate dallo Yemen, aspetto che fa apparire pretestuoso lo stop alla vendita ad Abu Dhabi di 50 caccia F-35 e 18 droni armati MQ9 Reaper per 23 miliardi di dollari, autorizzata da Trump poche ore di prima di lasciare la Casa Bianca e accettata anche da Israele dopo la firma degli “Accordi di Abramo”. Gli Emirati sono  lo stato più laico del mondo islamico: ha accolto il Papa, non applica discriminazioni religiose e il 4 febbraio ha ospitato  la Giornata della Fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune con la partecipazione del Pontefice, del Grande imam di al-Azhar, Ahmad Al-Tayyeb e del segretario generale delle Nazioni Unite

L’aeronautica saudita ha adottato regole d’ingaggio tese a ridurre i “danni collaterali”, aspetto che ha indotto Londra a cessare dopo un anno lo stop alla vendita di bombe per gli aerei di Riad. Su questo tema del resto non dovrebbero in ogni caso essere gli statunitensi a fare la morale agli altri, tenuto conto delle migliaia di civili colpiti nella lunga “campagna dei droni” in atto in numerosi stati tra Asia e Africa o anche solo dei civili iracheni uccisi dalle bombe e dai missili statunitensi durante la liberazione di Mosul dalle milizie dell’Isis.

La decisione di Biden va abbinata all’impegno dichiarato di rafforzare gli sforzi diplomatici con l'Iran per ripristinare l'Accordo sul nucleare del 2015 frenando le ambizioni di Teheran nella regione. Il segretario di Stato, Antony Blinken, ha annunciato la nomina di un nuovo inviato speciale per l'Iran, Rob Malley, mentre il consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan ha affermato che il ripristino dei limiti al programma nucleare iraniano è una priorità assoluta. Teheran ha già mostrato di apprezzare la svolta di Biden con il ministero degli Esteri iraniano che ha definito “un passo avanti” lo stop alla vendita di armi alle principali monarchie arabe del Golfo. Svolta che rischia però di raffreddare i rapporti tra Washington e potenze arabe (che per ora smorzano i toni circa i dissidi con l’amministrazione Biden), ma anche con Israele che sul contrasto all’Iran aveva incentrato l’asse strategico con gli USA.

Biden sembra esserne consapevole e infatti la Casa Bianca ha assicurato che continuerà a vendere a Riad e Abu Dhabi “armi difensive”, concetto sibillino riferito ai costosi sistemi di difesa antimissile destinati a proteggere da missili e droni i cieli del Golfo. Un settore specifico in cui gli USA non hanno il monopolio dei prodotti più efficaci, che spetta probabilmente alla Russia il cui peso nel Golfo è in costante crescita anche in termini militari per gli ottimi rapporti che mantiene con arabi e iraniani. Mosca, che ha già in comune con Riad e gli stati del Golfo l’interesse a mantenere a un livello accettabile le quotazioni del petrolio, potrebbe avvantaggiarsi da un raffreddamento dei rapporti tra gli USA e i loro tradizionali alleati ragionali.