Benedetto XVI ha rinunciato, non ha simulato
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Uno studio di due canonisti, realizzato per la Bussola, analizza le ricorrenti argomentazioni (scivoloni compresi) accampate contro la validità della rinuncia di Papa Ratzinger e quindi della successiva elezione di Francesco.
- Il testo integrale del documento, di Geraldina Boni e Manuel Ganarin
Geraldina Boni, professoressa ordinaria di Diritto ecclesiastico e canonico presso il Dipartimento di Scienze Giuridiche dell'Università di Bologna Alma Mater Studiorum, e Manuel Ganarin, professore associato di Diritto ecclesiastico e canonico presso il medesimo Dipartimento, ci hanno gentilmente inviato uno studio di confutazione della recente pubblicazione di padre Giorgio M. Faré, Non consegnerò il Leone. Il caso della Declaratio di Benedetto XVI: un'analisi canonico-storica, confutazione che i lettori potranno scaricare e leggere nella sua versione integrale e di cui proponiamo una visione sintetica.
Gli autori affrontano dapprima la tesi sostenuta da Faré alla p. 6 del proprio scritto, secondo la quale «l’atto di rinuncia di Benedetto XVI è “inesistente”» perché mancherebbe «in esso la volontà di abdicare». Secondo Faré, che il Papa non intendesse abdicare lo si desumerebbe dal fatto che egli abbia scelto di pronunciare una semplice dichiarazione (declaratio), nonché di utilizzare la formula “dichiaro di rinunciare” e non invece “io rinuncio”. Inoltre, secondo Faré, a rendere «non solo nullo ma addirittura inesistente» l'atto di rinuncia, sarebbe l'apposizione del differimento dell'entrata in vigore della rinuncia pronunciata l'11 febbraio al giorno 28 dello stesso mese.
Secondo Boni-Ganarin, «l’intestazione di un atto [...] costituisce un indice che, preso singolarmente, nulla rivela circa il suo contenuto, specialmente e proprio nell’ordinamento canonico, come universalmente risaputo»; inoltre, il diritto non richiede al papa che rinuncia alcuna precisa dichiarazione vincolante, cosa peraltro impossibile nell'ordinamento canonico, in quanto introdurrebbe «una limitazione della potestà primaziale, risultando perciò contraria al diritto divino positivo». Detto altrimenti: il papa non è vincolato ad usare una formula piuttosto che un'altra. È sufficiente invece che egli renda nota la sua intenzione di abdicare, cosa che Benedetto ha fatto nel suo riferimento esplicito «alla vacanza della Sede Apostolica», che dunque «fuga sul punto ogni dubbio». Per la stessa potestà primaziale, in nessun modo si può «costringere il papa a ratificare la sua decisione, avendo già manifestato inequivocabilmente la sua volontà a tutta la Chiesa e non essendo peraltro tenuto a un adempimento che indebitamente limiterebbe quel potere supremo di cui ha la piena disponibilità». La presunta necessità di una ratifica, sostenuta da Faré, costituisce pertanto uno dei numerosi «macroscopici “scivoloni” canonistici», presenti nella sua pubblicazione, che non tiene adeguatamente in conto lo specifico ordinamento ecclesiale.
Tra questi “scivoloni” rientra anche la questione del differimento dell'entrata in vigore della rinuncia. Gli autori premettono «che appare difficile se non impossibile, stando ai principi della teoria generale del diritto, che la presenza di un elemento accidentale possa di per sé determinare l’inesistenza di un atto giuridico, travolgendone così gli elementi essenziali»; più nello specifico, l'idea che la rinuncia di Benedetto XVI sarebbe inesistente per tale differimento non tiene conto «ancora una volta dell’inapplicabilità di alcune disposizioni codiciali agli atti del papa», il quale può legittimamente differire nel tempo l'efficacia di un proprio atto, cosa che peraltro già accade allorché il papa accetta le rinunce dai vescovi diocesani al compimento del 75° anno di età, differendone però l’efficacia al momento della notifica della nomina del nuovo vescovo.
Nello studio si affronta anche l'arcinota e reiterata obiezione che papa Benedetto avrebbe rinunciato al ministerium, ma non al munus petrino. Si tratta invero di una «distinzione concettuale maldestramente inventata», dal momento che molti canonisti, non ultimo il cardinale Péter Erdő, che pure Faré cita pro domo sua, rilevano che ministerium, munus e officium sono termini spesso usati in sinonimia. Il senso dell'utilizzo del termine “ministerium”, utilizzato da Benedetto XVI, dev'essere – secondo elementari criteri ermeneutici – desunto dal contesto, che è esplicitamente quello di lasciare la sede apostolica vacante, con conseguente convocazione di un conclave. Non ha perciò alcuna consistenza ritenere la rinuncia di Benedetto un atto giuridico nullo, per il fatto che non avrebbe utilizzato il termine munus, o non si sarebbe avvalso di una formulazione simile a quella di papa Celestino V, o ancora ritenerla nulla «per errore sostanziale».
Ancora, Faré riporta il parere del cardinale Vincenzo Fagiolo, nel 1994 incaricato da Giovanni Paolo II di effettuare uno studio sulla rinuncia del papa; Fagiolo affermava che il papa non può dimettersi per la sola età. La prof. ssa Boni e il prof. Ganarin fanno però notare che il parere del cardinale – che rimane pur sempre un parere, seppur autorevole – può al massimo riferirsi alla liceità dell'atto della rinuncia e non alla sua validità; il Sommo Pontefice, «al momento della rinuncia, non risponde a nessuno della propria decisione – il principio Prima Sedes a nemine iudicatur (can. 1404 CIC) sprigiona anche in questo campo tutta la sua forza giuridica». Se dunque le motivazioni di Benedetto XVI non furono proporzionate all'atto che stava per compiere, egli ne doveva rispondere – e lo ha già fatto – solo a Dio.
Cade dunque l'argomentazione fondamentale di Faré, ma anche di altri esponenti ben conosciuti nel mondo mediatico, secondo cui l'elezione di Francesco sarebbe invalida in quanto Benedetto XVI sarebbe stato ancora papa legittimo, per la presunta invalidità o nullità della sua rinuncia. Ma gli autori contestano anche un altro argomento molto diffuso circa l'invalidità dell'elezione di Bergoglio. Faré ha infatti fatta propria la ricostruzione del giornalista statunitense Jonathan Last, secondo il quale l'elezione del 2013 sarebbe stato frutto di «una campagna pianificata in anticipo da quattro cardinali radicali» del cosiddetto “gruppo di San Gallo”. Questa pianificazione renderebbe nulla l'elezione, in quanto in conflitto con il n. 76 della Universi Dominici Gregis (UDG), Costituzione apostolica che regola appunto il conclave. Ma il paragrafo invocato non rientra, secondo l'interpretazione canonistica, tra le prescrizioni irritanti, ossia tra quelle prescrizioni che, se non osservate, renderebbero nulla l'elezione. Oltre al fatto che né è dimostrata la famosa manovra dei quattro cardinali né si è in grado di sapere quanto essa avrebbe effettivamente inciso sul conclave.
Gli autori ricordano altresì che l'eventuale «partecipazione al conclave di cardinali colpiti dalla sanzione penale della scomunica non invalida in alcun modo l’elezione, come prevede il n. 35 UDG»; così come risulta «giuridicamente infondata» la tesi di una nullità del conclave in quanto avviato con anticipo e in assenza di due cardinali elettori, in quanto il n. 38 UDG «obbliga tutti i cardinali elettori a ottemperare all’annuncio di convocazione salvo non siano trattenuti da infermità o altro impedimento portato alla conoscenza dell’intero collegio dei cardinali»; fattispecie nella quale rientravano i due cardinali assenti. Anche l'anticipo del conclave risulta conforme al n. 37, modificato proprio da Benedetto XVI. In sintesi, si può affermare che la UDG «è stata perfettamente osservata; e i cardinali, avendo riconosciuto l’impedimento dei porporati assenti, del tutto congruamente hanno fatto ricorso alla potestà di cui al n. 37 UDG, introdotto verosimilmente da Benedetto XVI proprio per l’ipotesi di vacatio conseguente alla valida rinuncia papale: caso nel quale i porporati avrebbero potuto riunirsi prima dei tempi prescritti, non essendo necessario celebrare le esequie solenni del pontefice defunto. Elemento ulteriore, quest’ultimo, che conferma in modo implicito ma inconfutabile l’intenzione effettiva di Joseph Ratzinger di lasciare il proprio incarico e non certo di simularla per “porsi in sede impedita”».