Ancora sulla pretesa invalidità della Declaratio di Benedetto XVI. Et de hoc satis
Il testo integrale dello studio, realizzato per La Bussola, di Geraldina Boni e Manuel Ganarin.
Nihil sub sole novum. Così si potrebbe compendiare la sensazione suscitata dalla lettura del pamphlet di trentasette pagine, dal titolo Non Consegnerò il Leone. Il caso della Declaratio di Benedetto XVI: un’analisi canonico-storica, recentemente divulgato da Giorgio Maria Faré attraverso i propri canali social. Le argomentazioni addotte dall’autore, infatti, non sono nuove e riprendono pedissequamente teorie già sostenute da altri; come peraltro egli stesso riconosce laddove ammette che, in particolare, «l’inchiesta di [Andrea] Cionci mi ha fornito gli elementi fondamentali per l’interpretazione giuridica della dichiarazione di Benedetto XVI» (p. 4).
L'atto di rinuncia di Benedetto XVI è “inesistente”?
Faré ritiene anzitutto che lo scritto di rinuncia vergato da Joseph Ratzinger – datato 10 febbraio 2013 e, come noto, letto il giorno successivo alla presenza di una parte del collegio cardinalizio riunitosi in occasione di un concistoro ordinario pubblico per la canonizzazione di alcuni beati – sarebbe «inesistente come atto giuridico» (p. 5). Al riguardo va precisato, sulla scorta di autorevole dottrina, che l’inesistenza è una grave “patologia” dell’atto giuridico che si verifica, per esempio, qualora si riscontri l’assenza tra i suoi elementi essenziali o della volontà, in quanto colui che lo realizza non agisce liberamente, o dell’oggetto dell’atto medesimo (così Eduardo Baura, Parte generale del diritto canonico. Diritto e sistema normativo, Edusc, Roma, 2013, pp. 106 e 112-113).
A giudizio di Faré, si ricaverebbe la mancanza della voluntas renuntiandi dall’intitolazione del documento (Declaratio) e dalla formula adoperata da Benedetto XVI («declaro me ministerio […] renuntiare»), il quale avrebbe dovuto ricorrere all’inciso, il solo corretto nonché invalso nel «gergo legale» (p. 5), “io rinuncio”. Non si può invero fare a meno di evidenziare come queste ragioni siano di ordine meramente e riduttivamente non formale, ma formalistico, e dunque assolutamente non idonee a porsi quali “strumenti” decisivi per la retta comprensione del sostrato sostanziale della rinuncia. L’intestazione di un atto, d’altronde, costituisce un indice che, preso singolarmente, nulla rivela circa il suo contenuto, specialmente e proprio nell’ordinamento canonico, come universalmente risaputo; basti soltanto pensare al dibattito che ha animato la canonistica del Novecento circa la qualificazione giuridica dei sedici documenti del Concilio ecumenico Vaticano II, per i quali si reputava all’unisono del tutto insufficiente un approccio che si limitasse ai titoli loro assegnati di Constitutio, Declaratio e Decretum. Per quanto concerne le parole usate dal pontefice, va ricordato che la rinuncia dà luogo a una dichiarazione di volontà con efficacia costitutiva, volta cioè a innovare la realtà giuridica determinando – nel caso di specie – la cessazione di un ufficio ecclesiastico, quello petrino: ciò che integra, con palmare chiarezza nel contesto della Declaratio, l’oggetto dell'atto di rinuncia (appunto all'ufficio) sul quale sono ricadute le conseguenze della decisione assunta. Non si comprende pertanto per quale ragione plausibile si doveva esigere che il papa utilizzasse un’espressione diversa, e giuridicamente ultronea, come «“dichiaro di rinunciare, come in effetti rinuncio” o formula simile» (p. 5). Tale conclusione, da un lato, pretende di introdurre una limitazione della potestà primaziale, risultando perciò contraria al diritto divino positivo; dall’altro, non giunge in alcun modo alla dimostrazione che la rinuncia difettasse della «volontà di abdicare» (p. 5) e quindi fosse addirittura inesistente sul piano del diritto; del resto, il riferimento esplicito alla vacanza della Sede Apostolica fuga sul punto ogni dubbio e, comunque, non si può ignorare come in diverse occasioni Ratzinger abbia ribadito il suo proposito di lasciare il pontificato: circostanze, queste, che corroborano la presunzione iuris tantum di validità della rinuncia (cfr. can. 124 § 2 del Codex Iuris Canonici – CIC –).
Faré non tiene conto di questi elementi, citando in nota a sostegno della sua tesi la pubblicazione di un sacerdote argentino che si dichiara specializzato in teologia e filmati Youtube di avvocati esercenti la professione in Italia, obnubilando, dunque, i numerosi e consistenti lavori accademici dati alle stampe in questi anni da autorevoli giuristi che non da oggi si industriano nell’analisi del diritto della Chiesa e che hanno esaminato dettagliatamente e con acribia i profili giuridici della Declaratio di Benedetto XVI. Si tratta di una lacuna grave che emerge ictu oculi dalla bibliografia finale (pp. 32-37) e comprova incontrovertibilmente l’insussistenza di un metodo rigorosamente scientifico, il quale deve necessariamente orientare l’itinerario espositivo di un intervento su questioni complesse e delicate, diffuso largamente online e quindi capace di disorientare un numero non irrisorio di christifideles. Si ha, infatti, l’impressione che il “libello” di Faré sia stato confezionato a sostegno di una tesi precostituita, non essendo nemmeno menzionate le opinioni contrarie che pure meriterebbero attenta considerazione e – preme sottolinearlo – non provengono certamente dai cosiddetti “confundisti”, “legittimisti di Bergoglio”, “nemici della Chiesa e del papa”, “seguaci della Chiesa dell’Anticristo”, “cortigiani” o da chi sarebbe iscritto al “libro paga” del pontefice regnante, secondo deprecabili etichette che sovente e con leggerezza taluni attribuiscono, al fine non di controbattere le idee ma di denigrare le persone, rivelando così una sconcertante carenza di argomenti.
I criteri sovrintendenti un’attività di ricerca che davvero possa ritenersi scientifica, per converso, esigono in primo luogo la piena padronanza della materia investigata, poi l’analisi neutrale delle prese di posizione espresse sulla quæstio disputata e, da ultimo, l’elaborazione di un ragionamento che confuti punto per punto le asserzioni che si reputano meno attendibili. Tutte queste sono “qualità” che non connotano la ricostruzione di Faré, ove in alcuni passaggi sono presenti veri e propri macroscopici ‘scivoloni’ canonistici: come quando si sostiene che la rinuncia sarebbe giuridicamente inesistente poiché a essa non «è succeduta alcuna ratifica» (p. 5). Eppure, il can. 332 § 2 CIC, in linea di continuità con quanto previsto nel can. 221 del Codice pio-benedettino del 1917, ma invero con l’intera tradizione canonica, dispone che l’atto del papa non è richiesto sia accettato da qualcuno («non vero ut a quopiam acceptetur»): una precisazione ancorata all’assetto costituzionale della Chiesa e volta a riaffermare le prerogative di governo del successore di Pietro, titolare di una potestà suprema (can. 331 CIC), che non può essere astretta da vincoli prescritti da norme di diritto umano (cfr. Geraldina Boni, Sopra una rinuncia. La decisione di Papa Benedetto XVI e il diritto, Bononia University Press, Bologna, 2015, p. 82 ss., e la vasta dottrina ivi citata). Di conseguenza, non si può imporre l’accettazione delle “dimissioni”, poiché si abiliterebbe il soggetto o l’autorità che le riceverebbe a poterle respingere, ciò che non è ipotizzabile; né tanto meno si può costringere il papa a ratificare la sua decisione, avendo già manifestato inequivocabilmente la sua volontà a tutta la Chiesa e non essendo peraltro tenuto a un adempimento che indebitamente limiterebbe quel potere supremo di cui ha la piena disponibilità. Per questi motivi, dunque, né la legge positiva né la prassi potranno mai imporre un obbligo di ratifica, superando i confini invalicabili tracciati dallo ius divinum.
Vi è, inoltre, un cortocircuito palese nel ragionamento di Faré che, se per un verso lamenta l’omessa ratifica della rinuncia, tuttavia non stabilita dal diritto, per l’altro assume una discutibile visione positivista, notoriamente estranea alla natura dello ius Ecclesiæ, per denunciare la trasgressione del can. 189 § 3 CIC, secondo il cui tenore la rinuncia senza accettazione sortisce effetto mediante la comunicazione del rinunciante fatta a norma del diritto. L’obiettivo perseguito dall’autore è quello di 3 contestare l’apposizione, da parte di Benedetto XVI, nell’atto di rinuncia di un termine iniziale (dies a quo) a partire dal quale esso ha esplicato i suoi effetti. Segnatamente egli ritiene che ciò non sarebbe possibile dinanzi a un «“atto giuridico puro” […] che, per la [sua] importanza e per evitare possibili incertezze e ambiguità, non [ammette] la presenza di elementi accidentali, che sono solitamente la condizione e il termine», altrimenti l’atto medesimo sarebbe anche in questo caso «inesistente» (p. 5). Premesso che appare difficile se non impossibile, stando ai principi della teoria generale del diritto, che la presenza di un elemento accidentale possa di per sé determinare l’inesistenza di un atto giuridico, travolgendone così gli elementi essenziali, non si tiene conto ancora una volta dell’inapplicabilità di alcune disposizioni codiciali agli atti del papa, derivante da un’interpretazione del dettato normativo conforme allo ius divinum. Solo attraverso un’indagine approssimativa, infatti, si può desumere dal testo del can. 189 § 3 CIC che la rinuncia dovrebbe produrre un «effetto immediato», non essendo «prevista una possibilità di differimento» (p. 5). Ma ciò che non è riportato esplicitamente nella legge canonica non significa che sia implicitamente proibito: l’efficacia, al contrario, poteva legittimamente essere differita nel tempo, dato che la rinuncia è un atto di governo con il quale si determina la sola cessazione della titolarità dell’ufficio apicale di giurisdizione nella Chiesa, non rilevando in alcun modo l’investitura divina della carica e fermo restando che il papato non rappresenta il quarto grado del sacramento dell’ordine (cfr. Geraldina Boni, Sopra una rinuncia. La decisione di Papa Benedetto XVI e il diritto, cit., p. 116 ss., con menzione della non scarsa letteratura sul punto).
Ciò peraltro accade, mutatis mutandis, pure quando il papa accetta le rinunce presentate dai vescovi diocesani al compimento del 75° anno di età ai sensi del can. 401 § 1 CIC, sebbene solitamente si introduca la clausola “nunc pro tunc”, differendo, cioè, l’efficacia della rinuncia accettata al momento in cui verrà data pubblicamente notizia della nomina del nuovo vescovo preposto alla diocesi interessata (cfr. Congregazione per i vescovi, Il vescovo emerito, Libreria editrice vaticana, Città del Vaticano, 2008, p. 26; si veda sul punto Manuel Ganarin, Riflessioni a proposito delle disposizioni sulla rinuncia dei Vescovi diocesani e dei titolari di uffici di nomina pontificia, in Revista general de derecho canónico y derecho eclesiástico del Estado, n. 47 [2018], pp. 1-48). Joseph Ratzinger, pertanto, si è verosimilmente ispirato alla prassi seguita dalla Santa Sede, avendo bene a mente la fondamentale distinzione tra potestà d’ordine e potestà di giurisdizione, la quale anche giustifica l’apponibilità del termine iniziale alla rinuncia papale. Si rileva allora evidentemente infondata la constatazione per la quale «nella giurisprudenza in generale e nella letteratura canonistica in particolare questa possibilità non è contemplata» (p. 5).
Munus e ministerium
La presunta distinzione tra munus e ministerium assurge ormai a leitmotiv, invero un poco fumoso ed abborracciato, delle elucubrazioni di tutti coloro che contestano la validità della rinuncia di papa Benedetto XVI e, conseguentemente, dell’elezione di papa Francesco, il 13 marzo 2013. Vi sono tuttavia due elementi cruciali che un’analisi tanto obiettiva quanto completa della questione non dovrebbe assolutamente trascurare.
Anzitutto, si deve prendere atto della sinonimia esistente tra i due termini alla luce dei documenti normativi e magisteriali pubblicati specialmente in seguito al Concilio ecumenico Vaticano II. Sorprende, a tale proposito, come Faré citi un saggio risalente al 1989 di Péter Erdő, dove l’illustre autore – oggi cardinale – esordiva con un’affermazione eloquente e perentoria: «Ministerium, munus et officium sunt vocabula non parva ex parte synonima» (Ministerium, munus et officium in Codice Iuris Canonici, in Periodica, LXXVIII [1989], p. 411); in questo caso, come in molti altri in cui si 4 rinvia all’insigne canonista per evincerne (a sproposito) conferme alle proprie stravaganti ricostruzioni, sorge insopprimibile il sospetto che il non semplice scritto (in latino) del cardinale non sia stato neppure sfogliato (per una minuta disamina del medesimo cfr. Geraldina Boni, Sopra una rinuncia, cit., p. 172 ss.). Allo stesso modo, un altro canonista di fama internazionale, Juan Ignacio Arrieta, in tempi non sospetti, riscontrava «il fluttuante impiego di nozioni come “munus”, “ministero” ed “ufficio”», i quali «non trovano univoco contenuto sia nei due codici di diritto canonico latino – quello del 1917 e quello in vigore del 1983 – che nei documenti del Vaticano II, e che spesso risultano espressioni usate indistintamente in uno stesso contesto» (Funzione pubblica e ufficio ecclesiastico, in Ius Ecclesiae, VII [1995], pp. 92-93).
Sono asserzioni, queste, con le spiegazioni di cui vengono esaustivamente corredate, che uno studioso intellettualmente onesto non può fare a meno di prendere in considerazione, quantomeno per l’autorevolezza di coloro che le hanno scritte e pubblicate: così da scongiurare, del tutto auspicabilmente, la forzatura del significato dei testi giuridici e magisteriali della Chiesa, per la ricerca ossessiva della fonte che possa legittimare una distinzione concettuale maldestramente inventata.
Inoltre, sarebbe stato opportuno tener conto di quanto riferito nel libro dell’ex segretario personale di Benedetto XVI, Georg Gänswein, ove in alcuni passaggi salienti si sottolinea l’influenza della formazione teologica di Joseph Ratzinger che lo indusse a utilizzare, nella dichiarazione di rinuncia, il termine “ministerium”, essendo «la parola giusta e più forte nella tradizione teologica», mentre “munus”, negli insegnamenti del Concilio Vaticano II, ha «l’obiettivo di spiegare più precisamente il concetto dei tria munera, cioè la partecipazione di tutti i fedeli alla triplice funzione di Cristo, sacerdotale, profetica e regale» (Nient’altro che la verità. La mia vita al fianco di Benedetto XVI, Piemme, Milano, 2023, p. 277). Queste puntualizzazioni, effettuate nella consapevolezza del polverone polemicamente e artificiosamente sollevato sul binomio munus/ministerium, non possono essere intenzionalmente ignorate da chi, pur non avendo mai conosciuto né frequentato Joseph Ratzinger, reclama di poterne interpretare autenticamente e decodificare il pensiero.
Lungo il versante strettamente giuridico, poi, è quanto mai necessaria un’esatta esegesi della parola “ministerium” nel contesto complessivo dello scritto di rinuncia (cfr. can. 17 CIC), così da ricollegare direttamente la volontà di rinunciare a esso all’effetto scaturito dalla decisione di Benedetto XVI, vale a dire la vacanza della sede romana. Il riferimento espresso alla sede petrina vacante («sedes Romæ, sedes Sancti Petri vacet») – inteso da alcuni erroneamente, secondo un’accezione estranea al mondo del diritto, come “vuota”, poiché il papa dalle ore 20:00 del 28 febbraio 2013 si sarebbe trovato in una situazione di sede totalmente impedita – risulta perciò decisivo nell’operazione ermeneutica finalizzata ad assegnare alla rinuncia il suo corretto e univoco significato: quello d’altronde più immediato e intuitivo perché incentrato sul nesso di causalità tra la scelta del papa (rinuncia all’ufficio petrino) e ciò che è giuridicamente derivato da essa (vacanza della “sede di Roma”, espressione peraltro equipollente a quella di Santa Sede o Sede Apostolica, come si può altresì evincere dalla lettura della Costituzione Apostolica Universi Dominici Gregis). Non è perciò sostenibile che munus e ministerium abbiano «accezioni diverse» e dunque la rinuncia di Joseph Ratzinger sia invalida in quanto, sulla base di un approccio che dimentica quanto meno l’incidenza del diritto divino positivo, il can. 332 § 2 CIC «introduce la necessità di rinunciare esplicitamente al munus petrino» (p. 6).
Il papa, del resto, poteva usare indifferentemente una parola piuttosto che l’altra, purché fosse manifestata chiaramente la sua volontà di abbandonare il soglio petrino: cosa che effettivamente è 5 accaduta, non potendosi ipotizzare che egli abbia rinunciato a «esercitare il ruolo di Papa, pur restando Papa» (p. 7). È pertanto inutile e fuorviante richiamare il precedente della rinuncia di papa Celestino V del 1294, a proposito della quale, peraltro, lo stesso Ratzinger aveva dichiarato nel 2018 di essere «ben consapevole del fatto che la situazione di Celestino V era estremamente peculiare e che quindi non poteva in alcun modo essere invocata come precedente» (Peter Seewald, Benedetto XVI. Una vita, Garzanti, Milano, 2020, p. 1202). O addurre la nullità della Declaratio per errore sostanziale (cfr. can. 188 CIC) del rinunciante, vittima di un assurdo “processo alle intenzioni” da escludersi in radice, attese le molteplici occasioni in cui Ratzinger ha ribadito con perentorietà la validità delle sue “dimissioni” e riconosciuto la piena legittimità del suo successore; o teorizzare un “piano anti-usurpazione” che sarebbe stato predisposto quarant’anni or sono dai pontefici Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, quando dai resoconti dei lavori preparatori del Codice del 1983, pubblicati a partire dal 1969 nella rivista semestrale Communicationes, si ricava che entrambi non hanno in alcun modo partecipato alla fase di stesura del can. 332 § 2 CIC.
Così come è giuridicamente del tutto inconferente richiamare quanto pronunciato dal cardinale Angelo Sodano a seguito della lettura dell’atto di rinuncia, laddove il porporato fece riferimento al “servizio pontificale”, per desumerne fantasiosamente che alludesse al «ministerium» (p. 7), nonostante proprio lo stesso Sodano avesse in seguito convocato, in qualità di decano del collegio cardinalizio, il 1° marzo 2013, la prima congregazione generale dei cardinali (elettori e non), supponendo evidentemente che la Sede Apostolica fosse vacante (e non certo impedita). O, ancora, strumentalizzare a proprio vantaggio il pensiero di alcuni studiosi, come quello di Stefano Violi, che, in un contributo citato da Faré e pubblicato online nel 2019, ha precisato – forse nella coscienza che un suo precedente scritto un poco sommario e superficiale aveva alimentato un caos deleterio – come il gesto di Benedetto XVI abbia determinato «la perdita dell’ufficio e delle potestà annesse. Da ciò consegue che la sede del vescovo di Roma diventa vacante a motivo della rinuncia, e il Papa eletto esercita in pienezza il munus petrino, l’ufficio ecclesiastico di Romano pontefice con tutte le potestà annesse. La rinuncia però non comporta nel resignante la perdita della partecipazione ontologica ai sacri munera e all’esercizio di quei ministeri legati al munus che non richiedono l’esercizio del potere annesso all’ufficio» (Officium e munus tra ordinamento canonico e comunione ecclesiale, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale [www.statoechiese.it], fascicolo n. 31 del 2019, pp. 141-142).
Il “papa emerito”
Il brano estratto dal contributo di Violi permette peraltro di concentrare l’attenzione su un ulteriore aspetto, relativo allo status giuridico di “papa emerito” che, sebbene sia «assolutamente inedito nella storia della Chiesa» (p. 9), si è contraddistinto per alcune analogie con la condizione del vescovo emerito che ha governato la diocesi fino alla comunicazione dell’accettazione della rinuncia presentata una volta raggiunti i 75 anni di età (cfr. cann. 185 e 402 § 1 CIC). In entrambi i casi, infatti, il papa e il vescovo rinunciante non conservano più il potere di giurisdizione rispettivamente sulla Chiesa universale e particolare, ma permane la potestà d’ordine, vale a dire «la grazia e il carattere sacramentali dell’Episcopato, sui quali poggiano adeguatamente possibili compiti e missioni peculiari a [loro] ancora affidabili» (Congregazione per i vescovi, Il vescovo emerito, cit., p. 4; cfr. ampiamente Geraldina Boni, Sopra una rinuncia. La decisione di Benedetto XVI e il diritto, cit., passim). E Benedetto XVI ha ribadito tale immodificabile assetto allorquando specificò che l’istituto dell’“emeritato” avrebbe scongiurato una diarchia al vertice della Chiesa: posto che «la parola “emerito” indicava non il detentore in attività di una certa sede vescovile, ma l’ex vescovo che continuava ad avere un rapporto speciale con la sua sede di un tempo» (Peter Seewald, Benedetto XVI. Una vita, cit., p. 1205), un legame peculiare in forza del munus ricevuto con la consacrazione episcopale che, imprimendo un carattere indelebile, non sarebbe venuto meno con la rinuncia all’ufficio petrino. Appare perciò incomprensibile la tesi avanzata dall’avvocatessa colombiana Estefanía Acosta e ripresa da Giorgio Maria Faré, per la quale soltanto nel caso del vescovo diocesano munus e ministerium sarebbero tra loro separabili: «Per un Vescovo questa possibilità esiste ed è ciò che accade quando va in pensione: egli mantiene il munus, ovvero l’essere Vescovo, che gli è stato conferito tramite un Sacramento e che quindi non è cancellabile, ma non mantiene il ministerium, ovvero il compito di amministrare una Diocesi. Viceversa, per il Sommo Pontefice, rinunciare al solo ministerium trattenendo il munus è un’impossibilità giuridica “in quanto porta a un frazionamento delle funzioni che, per diritto divino, sono necessariamente inscindibili (perché la titolarità integra delle medesime da parte di una sola persona è essenziale per garantire l’unità della Chiesa)”» (p. 8). Rebus sic stantibus, se fosse davvero così e stando a quanto teorizzato da Acosta, il papa non potrebbe in alcun modo, date le somiglianze tra la condizione canonica di “vescovo emerito” e quella di “papa emerito”, rinunciare all’ufficio di romano pontefice; eppure tutto ciò non corrisponde alla coerente e coesa tradizione della Chiesa nonché alle effettive intenzioni di Joseph Ratzinger, che ha voluto abbandonare il soglio di Pietro aprendo la strada all’elezione del suo successore: pur mantenendo, alla pari dei suoi confratelli nell’episcopato, il munus derivante dal terzo grado del sacramento dell’ordine.
Questa chiave di lettura, peraltro, si rivela indispensabile per comprendere appieno e non alterare il senso di parte del discorso pronunciato durante l’udienza generale del 27 febbraio 2013 e richiamato da Faré, ove Benedetto XVI, sebbene con linguaggio giuridicamente non ineccepibile, aveva in qualche modo preannunciato i tratti caratteristici dello stato di “papa emerito”, nel quale sarebbe “entrato” il giorno successivo, implicante la perdita dell’ufficio di romano pontefice e la preservazione di un vincolo di natura spirituale, nel nascondimento e nella preghiera, con la sede di Roma e dunque con la Chiesa universale: «Il “sempre” è anche un “per sempre” – non c’è più un ritornare nel privato. La mia decisione di rinunciare all’esercizio attivo del ministero, non revoca questo. Non ritorno alla vita privata, a una vita di viaggi, incontri, ricevimenti, conferenze eccetera. Non abbandono la croce, ma resto in modo nuovo presso il Signore Crocifisso. Non porto più la potestà dell’officio per il governo della Chiesa, ma nel servizio della preghiera resto, per così dire, nel recinto di san Pietro».
Quanto alle motivazioni che hanno convinto Benedetto XVI a rassegnare le sue ‘dimissioni’, sorprende e non poco che Faré ricusi fermamente come la sola età avanzata possa fondarle sul piano causale – «questa giustificazione è inaccettabile» (p. 8) – in quanto negli anni ’90 del secolo scorso tale eventualità era stata esclusa dal cardinale Vincenzo Fagiolo (cfr. La rinuncia al papato e la rinuncia all’ufficio episcopale [Il caso di Papa Celestino V], Università di Teramo, Teramo, 1995, pp. 11-24). È evidente che le convinzioni – le quali erano in verità più un auspicio: cfr. Geraldina Boni, Sopra una rinuncia, cit., p. 64 ss. – maturate da uno studioso, seppur autorevole, non possono tradursi in un divieto che delimiti la valutazione discrezionale dell’autorità suprema della Chiesa. Quest’ultima, al momento della rinuncia, non risponde a nessuno della propria decisione – il principio Prima Sedes a nemine iudicatur (can. 1404 CIC) sprigiona anche in questo campo tutta la sua forza giuridica –, adducendo ragioni che potrebbero semmai inficiare i profili di liceità, ma non quelli di validità dell’atto; il papa assume infatti le sue responsabilità in ordine alla sussistenza di una causa della rinuncia, radicata, in ultima istanza, nel solo bene della Chiesa, esclusivamente coram Deo (cfr. Geraldina Boni, Sopra una rinuncia, cit., p. 31 ss.).
La validità del conclave del 2013
Attese le controdeduzioni esposte sino ad ora, non sono in alcun modo condivisibili le argomentazioni che sorreggono l’impianto complessivo dello scritto di Giorgio Maria Faré. Non vi sono, infatti, elementi sufficienti e fondati sul piano giuridico che possano mettere in seria discussione la validità della rinuncia di Benedetto XVI: e la successione di circostanze ambigue – «Benedetto XVI ha continuato a farsi chiamare “Sua Santità Benedetto XVI”, a vestirsi di bianco [invero senza indossare più i simboli dell’effettiva giurisdizione petrina: N.d.A.], a firmarsi P.P. e impartire la benedizione papale, ha mantenuto lo stemma che aveva da Papa rifiutandone espressamente uno nuovo» (p. 9) – non costituisce una prova decisiva, posto che Ratzinger né era in sede impedita né, dalle ore 20:00 del 28 febbraio 2013, ha mai adottato sino alla sua morte un atto di governo stricto sensu. Pertanto, non è applicabile nel caso di specie quanto previsto nel can. 153 § 1 CIC, secondo cui la provvisione di un ufficio ecclesiastico non vacante de iure – ma solo de facto, perché occupato da un titolare che si reputerebbe abusivo – è nulla per il diritto stesso e non diventa valida per susseguente vacanza dell’ufficio medesimo.
Nel 2013 si è assistito al legittimo e regolare avvicendamento nell’ufficio di romano pontefice tramite la rinuncia di Benedetto XVI e l’elezione di Francesco, entrambe pienamente valide a norma del diritto vigente. Al riguardo non si può fare a meno di evidenziare come le contestazioni alla rinuncia di Joseph Ratzinger si siano intensificate soprattutto a partire dal 2020, dunque a ben sette anni di distanza dall’inizio del pontificato di Jorge Mario Bergoglio, a riprova che i loro fautori erano e sono ancora mossi probabilmente da un pregiudizio e da un’avversione ideologica verso il papa regnante e soprattutto verso le linee di indirizzo programmatico da lui adottate, più che dall’esigenza che il diritto sia rettamente inteso e applicato in alcuni momenti delicatissimi della vita della Chiesa. Eppure, se ci fossero state manifeste anomalie, come si tenta insistentemente di dimostrare, ciascuna di esse sarebbe stata prontamente segnalata e denunciata dai canonisti: molti dei quali non sono certo accusabili di servilismo o di omertà, e che non sono stati teneri o indulgenti nello stigmatizzare certe riforme giuridicamente claudicanti o nel condannare certi intollerabili abusi di autorità perpetrati nella Chiesa negli ultimi lustri.
Comunque sia, al di là della Declaratio, ora è invalsa la propensione a contestare, con argomenti discutibili, altresì la validità del conclave del 2013, ricercando artatamente cavilli legali che dimostrerebbero la violazione della Costituzione Apostolica Universi Dominici Gregis (UDG) di san Giovanni Paolo II del 22 febbraio 1996, cioè della legge speciale che regola la materia, e non la sede impedita, che pure meriterebbe una legge ad hoc, richiamata nel can. 335 CIC, ma tutt’oggi non promulgata (cfr. La sinodalità nell’attività normativa della Chiesa. Il contributo della scienza canonistica alla formazione di proposte di legge, a cura di Ilaria Zuanazzi, Maria Chiara Ruscazio, Valerio Gigliotti, Mucchi editore, Modena, 2023, pp. 506, nel quale sono consultabili due proposte di legge elaborate da un gruppo internazionale di canonisti sulla sede romana totalmente impedita e lo status giuridico del vescovo di Roma che ha rinunciato), modificata da Benedetto XVI con i Motu Proprio dell’11 giugno 2007 (De aliquibus mutationibus in normis de electione Romani Pontificis) e del 22 febbraio 2013 (Normas nonnullas).
Faré in particolare riprende la ricostruzione del giornalista Jonathan V. Last per denunciare che l’ultima elezione pontificia sarebbe stata influenzata in misura determinante da quattro cardinali facenti parte del cosiddetto “gruppo di San Gallo” e costituenti, durante le votazioni in Cappella Sistina, il «“Team Bergoglio”» (p. 10). L’Autore, quindi, fa appello ai nn. 79-82 della Universi Dominici Gregis che «proibiscono ai Cardinali elettori di promettere voti, prendere decisioni sul successore in conventicole private, accogliere interferenze da parte di autorità secolari, ecc.» (p. 10): e la violazione di tali divieti, in alcuni casi sanzionata con la pena della scomunica latæ sententiæ, avrebbe a suo avviso provocato la «nullità» (p. 10) dell’elezione di Francesco ai sensi del n. 76 della stessa Costituzione Apostolica.
Premesso che non sono mai state prodotte prove dirette con le quali si dimostrerebbe l’effettiva capacità del ristretto “gruppo di San Gallo” di aver “pilotato” gli oltre cento cardinali partecipanti al conclave del 2013, addentrandosi nella complessa legislazione elettorale con l’ausilio delle delucidazioni della canonistica si perviene in realtà a un esito interpretativo diametralmente opposto. In effetti, le prescrizioni cui Faré fa riferimento non sono irritanti, cioè la loro trasgressione non dà luogo all’invalidità dell’elezione (cfr. can. 10 CIC): lo stesso n. 76, d’altronde, è collocato nel capitolo V della parte II, dedicato allo svolgimento della fase elettorale (De electionis explicatione) e pertanto, impiegando il canone ermeneutico del contesto della legge (cfr. can. 17 CIC), «non possiamo ritenere che il Legislatore con questo n. 76 voglia dichiarare irritanti tutte le leggi contenute nella UDG», avendo inteso attribuire semmai efficacia invalidante alle «sole norme strettamente legate all’elezione» (Ivan Grigis, La Costituzione Apostolica Universi Dominici Gregis, Pontificia Università Lateranense, Roma, 2004, pp. 343-344), per privare i cardinali elettori del «potere di riforma o di innovazione sulle procedura […], da osservarsi stricto iure» (Mario Francesco Pompedda, Sub n. 76 UDG, in Commento alla Pastor Bonus e alle norme sussidiarie della Curia Romana, a cura di Pio Vito Pinto, Libreria editrice vaticana, Città del Vaticano, 2003, p. 359).
Tra queste ultime, non si possono ricomprendere quelle di cui ai nn. 79-82 UDG, non a caso collocate in un capitolo distinto, il VI (De iis quæ servanda vel vitanda sunt in electione Romani Pontificis), nel quale vi sono una serie di divieti, la violazione di uno dei quali non è in alcun modo sanzionata (segnatamente il n. 79, che vieta a chiunque, non esclusi i cardinali, di contrattare, mentre il pontefice è in vita e senza averlo consultato, circa l’elezione del suo successore o di promettere voti o prendere decisioni al riguardo in conventicole private), mentre un altro si limita a dichiarare la nullità e invalidità delle “capitolazioni”, che si verificano allorquando i cardinali prima dell’elezione prendono impegni di comune accordo, obbligandosi ad attuarli se uno di loro sarà eletto al soglio pontificio (n. 82). Infine, la Costituzione Apostolica punisce con la scomunica latæ sententiæ i cardinali elettori che non salvaguardino il conclave “ab externo”, cioè dal veto o dalle ingerenze delle autorità secolari (n. 80), ovvero si adoperino per concludere patteggiamenti, accordi, promesse o altri impegni di qualsiasi genere, anche sotto giuramento, che li costringano a dare o negare a uno o ad alcuni il loro voto, disponendo anche in questo caso la nullità e invalidità di simili pattuizioni (n. 81).
In entrambi i casi peraltro va ricordato che la partecipazione al conclave di cardinali colpiti dalla sanzione penale della scomunica non invalida in alcun modo l’elezione, come prevede il n. 35 UDG, il quale preclude l’esclusione della voce attiva e passiva dei cardinali elettori «nulla ratione vel causa», eccettuato quanto sancito nei nn. 40 (rifiuto di prendere parte all’elezione o di rimanervi senza manifesta ragione di malattia) e 75 (ipotesi del ballottaggio, per cui godono di elettorato passivo solo i due nomi che hanno ottenuto più voti nello scrutinio precedente ma i candidati in questione non possono esprimere il loro voto). I nn. 35 e 75 UDG sono stati tra l’altro riformati da Benedetto XVI con il Motu Proprio Normas nonnullas, che ha modificato una disposizione “preconclave” di fondamentale importanza, cioè il n. 37, per conferire al collegio cardinalizio la facoltà di anticipare l’inizio del conclave prima che trascorrano quindici giorni dal momento in cui la Sede Apostolica è legittimamente vacante, purché siano presenti tutti i cardinali elettori.
Di recente, c’è chi ha eccepito la nullità della provvisione canonica dell’ufficio petrino in quanto il collegio cardinalizio avrebbe violato tale prescrizione per dare avvio al conclave con due giorni di anticipo nonostante non fossero presenti due porporati. Ma anche tale ricostruzione è giuridicamente infondata, questa volta alla luce del n. 38 UDG, che obbliga tutti i cardinali elettori a ottemperare all’annuncio di convocazione salvo non siano trattenuti da infermità o altro impedimento portato alla conoscenza dell’intero collegio dei cardinali: ciò che è avvenuto l’8 marzo 2013, quando l’ottava congregazione generale dei cardinali (elettori e non) decise che quattro giorni dopo, il 12 marzo, il conclave avrebbe avuto inizio, mentre nel resoconto della settima congregazione generale si riporta che «il cardinale Decano, a norma del n. 38 della Costituzione apostolica Universi Dominici gregis, ha informato il Collegio dei cardinali sui motivi presentati da due cardinali elettori per giustificare la loro assenza: si tratta del card. Julius Darmaatmadja (motivi di salute) e del card. Keith Michael Patrick O’Brien (motivi personali). Il card. Decano ha chiesto se il Collegio accettava di riconoscere tali motivazioni. La risposta è stata affermativa. Il numero definitivo degli elettori è quindi risultato di 115. Il Card. Decano ha quindi rilevato che, in conseguenza di ciò, non essendovi altri elettori da attendere, non è necessario aspettare quindici giorni interi per l’inizio del Conclave, poiché si può applicare il n. 37 della Costituzione apostolica come modificato dal recente Motu proprio del Papa Benedetto XVI, che recita: “… lascio peraltro al Collegio dei cardinali la facoltà di anticipare l’inizio del Conclave se consta della presenza di tutti i Cardinali elettori”» (Briefing sulla Sesta e Settima Congregazione generale del Collegio Cardinalizio, 8 marzo 2013, consultabile all’indirizzo internet www.vatican.va (qui il link diretto); sulle presunte anomalie dell’elezione di Bergoglio cfr. Geraldina Boni, Sull’elezione di Papa Francesco, in Archivio Giuridico Filippo Serafini, CCXXXV [2015], pp. 179-191).
La Universi Dominici Gregis, dunque, è stata perfettamente osservata; e i cardinali, avendo riconosciuto l’impedimento dei porporati assenti, del tutto congruamente hanno fatto ricorso alla potestà di cui al n. 37 UDG, introdotto verosimilmente da Benedetto XVI proprio per l’ipotesi di vacatio conseguente alla valida rinuncia papale: caso nel quale i porporati avrebbero potuto riunirsi prima dei tempi prescritti, non essendo necessario celebrare le esequie solenni del pontefice defunto. Elemento ulteriore, quest’ultimo, che conferma in modo implicito ma inconfutabile l’intenzione effettiva di Joseph Ratzinger di lasciare il proprio incarico e non certo di simularla per ‘porsi in sede impedita’.
Papa dubius, papa nullus
Al termine della “parte giuridica” del lavoro reso di pubblico dominio da Giorgio Maria Faré, l’autore rievoca il principio, «proveniente dalla tradizione canonistica» (p. 11), secondo cui in caso di dubbio sull’elezione il papa deve necessariamente ritenersi nullo (papa dubius, papa nullus). Nonostante si richiami un contributo di Gianfranco Ghirlanda, pubblicato nel 2013 ne La Civiltà Cattolica (cfr. Cessazione dell’ufficio di Romano Pontefice, in La Civiltà Cattolica, CLXIII [2013], I, pp. 445-462) e nel quale il noto canonista sostiene che tale principio valga solo in presenza di un «dubbio positivo e insolubile», Faré si discosta dalle consolidate acquisizioni della canonistica rilevando che «se esiste anche un solo dubbio (non una certezza!) che il superiore non abbia effettivamente la carica che dice di avere, non gli si deve obbedienza» (p. 11, il corsivo è aggiunto). Sarebbe perciò sufficiente che nella Chiesa qualcuno nutrisse sospetti, più o meno fondati, sulla legittimità dell’elezione papale per “spezzare” il vincolo di comunione che unisce il popolo di Dio alla gerarchia (cfr. can. 205 CIC); anzi, costituirebbe «un dato di fatto che l’elezione del Card. Bergoglio è stata messa in discussione 10 da più parti e ciascuna di queste ipotesi non ha avuto smentite ufficiali», non avendo la Santa Sede replicato alle «copiose argomentazioni avanzate in tutti questi anni». Di conseguenza, «Papa Francesco è certamente un Papa dubbio» (p. 11), e addirittura per «Bergoglio e almeno parte del Collegio cardinalizio […] non si può neppure presumere la buona fede» perché «sono sempre stati consapevoli dell’invalidità dell’elezione» (p. 13).
Si tratta di considerazioni del tutto peregrine. Può indubbiamente insorgere un dubium sulla validità di un’elezione, inclusa quella del vescovo di Roma: ma esso dovrebbe anzitutto contraddistinguersi per alcune caratteristiche pregnanti che delineano i contorni di uno stato oggettivo di incertezza, eventualmente propagatosi in una parte consistente della comunità dei christifideles sparsi per il mondo (sebbene il grado di diffusione di un dubbio non costituisca un “indice” rivelatore del suo fondamento obiettivo). All’opposto, le teorie rilanciate da Faré non integrano gli estremi di un dubbio oggettivo, positivo e probabile, facendo leva su asserzioni apodittiche e preconcette, non sostenute da un impianto argomentativo robusto, tale cioè da porsi quale alternativa attendibile rispetto a ciò che viene sbrigativamente etichettato come la “vulgata”, cioè la versione ufficiale falsamente veicolata dai mass media (sui tipi di dubbio rilevanti nell’ordinamento canonico cfr., per tutti, Eduardo Baura, Parte generale del diritto canonico. Diritto e sistema normativo, cit., pp. 369- 370). In sostanza, il livello di credibilità delle tesi propalate appare visibilmente inconsistente: e poco o nulla serve lamentare la presunta malafede dei cardinali o intentare iniziative malaccorte e controproducenti come l’istanza al Tribunale di prima istanza dello Stato della Città del Vaticano, presentata per richiedere «il riconoscimento della nullità dell’abdicazione di Papa Benedetto XVI» (p. 24). Al riguardo, si attende ancora oggi che i soggetti promotori delucidino quali sarebbero i fondamenti giuridici della petitio, inoltrata all’organo di giustizia operante nel minuscolo Stato d’Oltretevere, che non ha però nessuna competenza per trattare di problematiche del genere, afferenti per loro natura alla Santa Sede e perciò all’ordinamento canonico, e non certo a quello vaticano: ordinamenti distinti, pur essendo tra loro peculiarmente correlati.
All’improvvisazione canonistica si somma la pretestuosità di affermazioni con le quali si liquidano frettolosamente gli argomenti avversi, come la pacifica universalis Ecclesiæ adhæsio circa l’elezione di Francesco, da trascurarsi senza scrupoli poiché vi sarebbero «numerosi voci discordanti e persistenti nel tempo, per quanto minoritarie» che escluderebbero «un consenso “pacifico e universale”» (p. 12). Ma non è possibile che le perplessità di qualcuno, tanto fragili quanto opinabili, possano pregiudicare la formazione di tale consenso e determinare la nullità dell’elezione di un papa presuntamente “dubbio”: la portata universale dell’adesione non equivale a un’unanimità delle convinzioni esistenti nel popolo di Dio e, laddove vi siano minoranze dissenzienti, queste devono farsi portatrici di supposizioni seriamente motivate e adeguatamente suffragate, perché altrimenti si ingenerano unicamente confusione e disorientamento, a grave detrimento sia della salus animarum sia dell’unitas Ecclesiæ, che per converso dovrebbero essere preservate con la massima cura.
Geraldina Boni
Professoressa ordinaria di Diritto ecclesiastico e canonico Dipartimento di Scienze Giuridiche – Alma Mater Studiorum Università di Bologna
Manuel Ganarin
Professore associato di Diritto ecclesiastico e canonico