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Autonomia, intendere correttamente la sussidiarietà

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I vescovi italiani, piuttosto che condannare in via di principio la legge sull'Autonomia, avrebbero potuto fornire un aiuto alla interessante fase in corso con la loro Dottrina sociale. Partendo da una definzione corretta di sussidiarietà. 

Editoriali 04_09_2024

Quanti sostengono la legge sulla autonomia differenziata chiamano in causa spesso, anche se non sempre a proposito, il principio di sussidiarietà, che si ritiene venga applicato in questo caso. Così facendo fanno anche riferimento alla Dottrina sociale della Chiesa, perché il principio di sussidiarietà è stato formulato e via via approfondito nei documenti del magistero sociale. Nello stesso tempo, però, i vescovi cattolici, che dovrebbero sentire quel principio come proprio, non lo usano ed entrano nella problematica politica della legge con una decisa condanna, facendo coincidere l’unità della nazione con il centralismo statale. 

La sussidiarietà dice che le società più vicine alla persona, come le società naturali quali sono la famiglia o la comunità locale, hanno il diritto a far fronte direttamente al perseguimento del proprio bene comune. Le società più ampie e più lontane devono sostituirsi ad esse quando sono in difficoltà, ma con spirito di supplenza e aiutandole perché possano arrivare a fare da sole. La parola subsidium (aiuto) da cui la parola sussidiarietà, non indica quindi un cieco e deresponsabilizzante assistenzialismo dall’alto, ma un aiuto a riappropriarsi del proprio naturale protagonismo nel perseguire i propri fini. È quindi evidente che la legge Calderoli ha a che fare con questo principio, che sembra facile da comprendere e da applicare, ma così non è.

Intanto bisogna dire che il “decentramento” in cui consiste la legge in questione è di per sé contrario al principio di sussidiarietà, perché va dal centro alla periferia mentre il percorso corretto dovrebbe essere il contrario. Si è obbligati a fare così, perché i danni dell’accentramento sono già stati prodotti, ricordando però che il percorso fisiologico sarebbe diverso: ogni società naturale svolge le cose che può fare da sola, quindi si passa ai livelli superiori fino alla regione a poi allo Stato. Il percorso corretto è dal basso verso l’alto, dal prossimo al remoto.

Poiché però proveniamo da decenni (e secoli) di accentramento statalistico, ora siamo costretti a percorrere la strada contraria, ossia a ridare alle comunità che precedono lo Stato quanto spetta loro. Questo può comportare dei possibili equivoci, come per esempio che si attribuisca allo Stato il compito di decidere cosa decentrare e cosa no, o addirittura di pensare che tale decentramento non sia un diritto delle società inferiori ma una generosa delega dello Stato. La legge Calderoli prevede ora una iniziativa anche delle regioni e non solo dello Stato e questo può contribuire a correggere le possibili disfunzioni.

Comunque, anche con l’accorgimento ora visto, il trasferimento di competenze può avvenire ancora con criteri centralistici per quanto riguarda cosa le regioni faranno delle competenze ricevute. È chiaro che se esse dovessero esercitarle in uno spirito a sua volta centralistico, contraddirebbero a livello regionale quanto hanno combattuto a livello statale. Se le regioni dovessero intendersi come dei piccoli Stati nella gestione delle nuove competenze acquisite, il principio verrebbe meno e si sarebbe trattato di un semplice trasferimento di cose da fare, fatte però nello stesso modo di prima. Il confronto regioni e Stato in applicazione della legge dovrebbe tenere conto anche di questo aspetto, affinché le regioni diano una articolazione sussidiaria alle nuove aree di loro competenza, valorizzando le realtà regionali della sussidiarietà sia verticale che orizzontale. In molte regioni queste realtà del privato-pubblico o dell’economia civile ci sono e funzionano abbastanza bene, in altre bisogna favorirne la nascita.

Il trasferimento delle competenze va poi attuato tenendo conto delle concrete capacità delle regioni di assumerle e svolgerle in proprio. A questo proposito la legge, come noto, prevede di definire i livelli minimi di prestazione. Questo dovrebbe permettere di dare un aiuto (subsidium) alle regioni che non ce la fanno da sole, ma non per sempre, con un criterio nuovamente assistenzialista contrario alla sussidiarietà, ma in spirito di supplenza e con il fine di renderle responsabilmente autonome anche in quei settori. Se le regioni “deboli” non accettassero questa logica è come se dichiarassero un diritto all’assistenza perpetua, che non può essere accettato. Nella fase della definizione dei livelli minimi, tutti questi criteri devono essere applicati insieme.

Anche se tutte queste osservazioni fossero soddisfatte, rimarrebbe ugualmente sullo sfondo il problema dei problemi, quello dei criteri. Il principio di sussidiarietà prevede la possibilità di stabilire quali sono le attività “naturali” che è giusto lasciare nelle mani delle società più piccole, e quali sono invece quelle che spettano alle più grandi. Il principio prevede quindi l’esistenza di un ordine sociale, nel quale ogni livello persegue le proprie finalità naturali e non quelle artificiali, quelle dovute e non quelle semplicemente pretese.

Purtroppo, questo quadro culturale ormai non c’è più e si apre quindi la partita degli egoismi. Giusto che la regione abbia, per esempio, le politiche familiari e la scuola, ma poi le gestirà imponendo gender e ideologie pseudo-educative innaturali? Se così fosse, il suo diritto a quelle competenze cesserebbe. Il criterio della “vicinanza” alla persona dentro le società naturali non si misura a metri o chilometri, esso è qualitativo e significa la conformità alle loro esigenze naturali. I vescovi italiani, piuttosto che condannare in via di principio, avrebbero forse potuto fornire un aiuto alla interessante fase in corso con la loro Dottrina sociale.