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MYANMAR

Aung San Suu Kyi, la prigioniera birmana

Altri quattro anni di carcere per Aung San Suu Kyi, la leader della Lega Nazionale per la Democrazia del Myanmar. Le accuse sono bagatellari. La giunta militare la vuole estromettere del tutto dalla politica del Paese dopo che il suo partito ha stravinto le elezioni del 2020. È una storia che si ripete, tutto è come nel primo arresto del 1989. 

Esteri 12_01_2022
Aung San Suu Kyi

Poche persone hanno subito più condanne politiche (anche se mascherate con reati amministrativi) di Aung San Suu Kyi. Alla leader democratica del Myanmar (ex Birmania), nell’ultima sentenza del 10 gennaio, sono stati comminati quattro anni di carcere. Lo scorso 6 dicembre, era stata condannata ad altri due anni di detenzione. I periodi da passare dietro le sbarre sono assolutamente sproporzionati rispetto ai reati che le vengono contestati, poco più che un pretesto per eliminarla completamente dal scena politica. Dal 1 febbraio 2021, quando i militari hanno ripreso il potere con un golpe, Aung San Suu Kyi è detenuta in località segreta. Poco si sa anche sulla sua salute, che potrebbe essersi molto deteriorata nell’ultimo anno.

La leader birmana sta subendo processi per una decina di reati di cui è accusata, cumulativamente potrebbe passare tutto il resto della sua vita (ha 76 anni) in galera. L’ultima condanna, del 10 gennaio, riguarda tre reati amministrativi: violazione delle regole anti-Covid sull’assembramento, importazione e detenzione illegale di walkie talkie, sequestrati al momento dell’arresto (cioè del golpe). La magistratura birmana l’aveva condannata anche il 6 dicembre scorso sempre per il reato di violazione delle regole anti-Covid. Reato per cui (si consolino gli italiani multati) le sarebbero stati comminati 4 anni di detenzione, poi ridotti a 2 per la “clemenza” della giunta militare del generale Min Aung Hlaing. In tutto sono sei anni di carcere. E si attendono ancora le prossime sentenze.

Sulla salute della leader democratica si sa ancora poco. Ma alcuni episodi fanno temere che si stia deteriorando rapidamente. In settembre, dopo otto mesi di carcere, un’udienza di uno dei suoi processi era saltata proprio perché l’imputata non era in grado di presentarsi in aula. In ottobre, il suo avvocato aveva chiesto un rallentamento del ritmo delle udienze, invece che una alla settimana, almeno una ogni due. La causa dichiarata era semplicemente “stress”. “Non è una condizione preoccupante. È solo stanca”, aveva dichiarato allora, all’agenzia Reuters, il suo legale, Khin Maung Zaw.

Quello della leader birmana è un ciclo continuo di detenzioni, scarcerazioni e vittorie, condiviso con tutto il suo Paese. La moderna lotta per la democrazia, iniziò nel 1988, dopo 26 anni di dittatura militare. Al primo spiraglio riformatore, dovuto alla crisi economica, a sua volta dovuta alla politica socialista del regime, la popolazione più giovane insorse in massa. Alle prime sanguinose repressioni, nella primavera del 1988, la protesta si allargò. L’8 agosto del 1988 divenne una rivoluzione, ma venne schiacciata con la forza militare. In settembre, con un vero e proprio auto-golpe, i militari ripresero il pieno controllo del potere. In settembre, per opporsi, venne fondata la Lega Nazionale per la Democrazia. Fra i suoi fondatori vi era Aung San Suu Kyi, figlia del generale Aung San, eroe dell’indipendenza. Era l’anima non violenta della rivoluzione del 1988 Nel 1989, un anno prima delle elezioni concesse dalla giunta, venne arrestata assieme agli altri dirigenti e maggiori esponenti del suo partito. I militari, convinti di vincere, lasciarono il popolo libero di votare il 23 maggio 1990. Nonostante Aung San Suu Kyi fosse già agli arresti domiciliari, il suo partito stravinse, con il 60% dei voti. La giunta militare non riconobbe, però, la legittimità del nuovo parlamento e reimpose la dittatura.

Da allora ad oggi, la leader democratica ha trascorso 21 anni dentro e fuori dalle mura di casa sua, diventata un carcere. Non fu mai veramente libera nemmeno dopo il 1995, quando vennero revocati i domiciliari: i suoi movimenti erano monitorati e limitati, in nessun caso avrebbe potuto lasciare il Paese. La morte la sfiorò nel 2003, quando, appena le fu concesso di riprendere la sua attività politica, scampò miracolosamente a un attentato. L’anno stesso, venne di nuovo condannata ai domiciliari, per altri sette anni, fino al 2010. Dal 2012 è rientrata in Parlamento. Dal 2015, pur se la sua carica non è mai stata riconosciuta, è di fatto stata la premier del Myanmar per cinque anni. Durante i quali è finita nel mirino per il suo ruolo (secondario, rispetto a quello dei militari) nella repressione armata della minoranza musulmana dei Rohingya. Nel 2019 era comparsa di fronte alla Corte Penale Internazionale, dove ha respinto le accuse di genocidio, definendole "fuorvianti". Ma intanto la sua reputazione era macchiata e molte istituzioni, statali e non, hanno ritirato i premi che le avevano conferito. Anche per questi motivi, i militari sono andati sul sicuro, convinti di non incontrare troppa resistenza internazionale, quando hanno deciso di sbarazzarsi ancora di quella scomoda leader politica.

La storia si è infatti puntualmente ripetuta nel 2021. Aung San Suu Kyi ha stravinto il voto di fine 2020. Dopo aver contestato i risultati con mezzi giudiziari, il 1 febbraio dell’anno scorso i militari hanno riconquistato il potere con la forza. E per prima cosa hanno arrestato Aung San Suu Kyi. Ora gli ultimi sei anni di condanna appaiono veramente come una nota a margine di una lunghissima storia di detenzioni.

La sua sorte è condivisa anche dagli oppositori in tutto il Paese. Dall’inizio delle proteste contro il golpe militare, circa 1400 civili sono stati uccisi dall’esercito e altri 11mila arrestati. In due successive amnistie, in giugno e ottobre, 2mila prigionieri politici sono stati scarcerati. Molti di loro hanno subito torture, emerse dai racconti di alcuni ex prigionieri anonimi, raccolte dal sito indipendente Myanmar Now. Sono storie di sadismo puro dei militari, che picchiano e torturano i detenuti anche senza alcun motivo, senza nemmeno chieder loro informazioni. La notizia fa il paio con la scoperta di fosse comuni in cui sono sepolti civili torturati e uccisi dall’esercito, per rappresaglia dopo gli attacchi dei resistenti armati. Di tutte queste violenze, Aung San Suu Kyi è probabilmente tenuta all’oscuro.