Assolto Cappato, l'eutanasia fa un altro passo in Italia
Assolto in appello per il suicidio assistito di Davide Trentini, Marco Cappato adesso vuole trasformare questa sentenza in legge e chiede subito un referendum. La Corte Costituzionale aveva già di fatto legittimato l'eutanasia. In questo caso la magistratura fa un passo in più legittimando il suicidio assistito di un malato cronico che non era attaccato alle macchine.
Alcuni italiani hanno un doppio cognome. Tra questi c’è Marco Cappato, il quale, da tempo, non si chiama più solo Marco Cappato, ma Marco Cappato Assolto. Infatti il tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni va ormai assolto in tutti i processi che lo vedono coinvolto. L’ultimo è quello riguardante la morte di Davide Trentini. Ricostruiamo la vicenda giudiziaria di questo caso perché è paradigmatica delle novità in peius introdotte dalla Consulta in materia di aiuto al suicidio con la sentenza n. 242 del 2019.
Davide Trentini era affetto da sclerosi multipla a decorso cronico progressivo. Nel 2016 l’Associazione Luca Coscioni entra in contatto con lui. Cappato aveva iniziato una raccolta fondi per aiutarlo ad andare in Svizzera al fine di trovare lì la morte ed invece Mina Welby, copresidente della medesima associazione, aveva accompagnato in ambulanza Trentini fino alla clinica di Lifecircle che sorge nella cittadina svizzera di Liestal. In quella clinica Trentini aveva assunto autonomamente un preparato che, il 13 aprile 2017, lo aveva portato alla morte. Come da copione radicale ormai rodato – vedi il caso Dj Fabo - Cappato e Welby si sono autodenunciati alle autorità italiane al fine di creare un caso giudiziario e quindi mediatico e quindi infine politico-legislativo.
In primo grado il pm di Massa Marco Mansi aveva chiesto la reclusione a 3 anni e 4 mesi per ciascuno degli imputati. Ma nel frattempo c’era stata la già ricordata sentenza della Corte costituzionale che aveva dichiarato parzialmente incostituzionale l’art. 580 cp, che sanziona l’istigazione e l’aiuto al suicidio, laddove non «esclude la punibilità di chi […] agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli». Detto in altri termini, laddove fossero presenti queste condizioni l’aiuto al suicidio non è reato. In primo grado gli imputati vennero assolti proprio perché i criteri di non punibilità indicati dalla Consulta erano tutti presenti nella vicenda Trentini.
In particolare – ed è l’aspetto più saliente di questo caso giudiziario – per “trattamento di sostegno vitale”, secondo i giudici, deve intendersi «qualsiasi trattamento sanitario alla cui interruzione conseguirebbe, anche se non in maniera rapida, la morte». Dunque per “trattamento di sostegno vitale” non si deve intendere solo il supporto di macchinari che tengono in vita il paziente come la ventilazione assistita o la Peg o qualsiasi altra forma di nutrizione e idratazione assistite, ma tutto ciò che, in qualsiasi modo, tiene in vita una persona, compreso quell’insieme di farmaci che Trentini assumeva. Quest’ultimo, infatti, non era ancora attaccato a nessun respiratore artificiale, ma nonostante ciò la sua vita dipendeva dal supporto farmacologico.
In appello Cappato e Welby, il 28 aprile scorso, sono andati nuovamente assolti per le medesime motivazioni. In particolare, come sottolinea il procuratore generale di Genova, Roberto Aniello, non vi sono state condotte rafforzative dell’intento di suicidarsi da parte degli imputati, ma solo condotte che hanno agevolato il proposito già formatosi liberamente in Trentini. In merito poi alla irreversibilità della patologia richiesta dalla Consulta per accedere al suicidio assistito, il procuratore generale appunta, ahinoi correttamente dal punto di vista giuridico, che «l’irreversibilità attiene alla patologia, come esplicitamente affermato dalla Corte Costituzionale. Ciò significa che deve trattarsi di malattia che, mediante le terapie disponibili, non sia suscettibile di regressione. Questa situazione prescinde, di per sé, dalla evoluzione della malattia in un senso ineluttabilmente letale, né assume alcuna rilevanza il fatto che la morte possa sopraggiungere solo dopo molto tempo». In questo senso qualsiasi patologia cronica, anche a non decorso letale, potrebbe essere il lasciapassare per l’eutanasia praticata tramite aiuto al suicidio.
Infine si ripropone il criterio cardine per accedere al suicidio assistito: la dipendenza da trattamenti di sostegno vitale. A tal proposito il dott. Mario Riccio, consulente della difesa e medico anestesista che nel 2006 aveva aiutato a morire Piergiorgio Welby, ha dichiarato in una sua relazione tecnica: «La sopravvivenza del Trentini dipendeva da un sottile equilibrio del dosaggio dei farmaci. Una riduzione avrebbe determinato una situazione di sofferenza e di scompenso cardiaco che ne avrebbe accelerato il decorso clinico fino alla morte. Un incremento, in particolare del dosaggio di Fentanil ne avrebbe causato il decesso in tempi brevi se non immediati». Sulla stessa frequenza d’onda il pg Aiello: «appare senz’altro condivisibile la conclusione del giudice di primo grado, secondo cui il trattamento farmacologico della malattia del Trentini costituiva una condizione imprescindibile per la prosecuzione della vita».
Dunque, come avevamo già avuto modo di scrivere quando fu pubblicata la sentenza della Consulta nel 2019, il bacino di utenza dei possibili candidati all’eutanasia si allarga rispetto a quanto previsto dalla legge sull’eutanasia n. 219/17. Infatti in quest’ultima i candidati erano per lo più pazienti attaccati a macchinari. Scriviamo «per lo più» perché la legge permette di praticare l’eutanasia anche tramite la cosiddetta sedazione profonda continua, protocollo che potrebbe interessare anche soggetti non tenuti in vita da macchinari. Ma la Consulta esplicitò ancor meglio ciò che era contenuto in nuce dalla legge: se morire è un diritto, questo diritto non può conoscere limiti di sorta e quindi porte aperte, o meglio: fosse aperte anche a chi non è tenuto in vita da alcun macchinario – dai malati oncologici ai pazienti con gravi problemi cardiovascolari – e a chi è affetto da una patologia irreversibile, anche blanda, compresi quindi i pazienti con patologie croniche.
Uscito dal tribunale Cappato si è affrettato a tradurre in battaglia ideologica il risultato giudiziario appena portato a casa e quindi, via Twitter, ha rilanciato la campagna referendaria per avere, dice lui, una legge sull’eutanasia (anche il caso recente del 42enne marchigiano tetraplegico è stato sfruttato in tal senso). Ma una legge sull’eutanasia c’è già, la legge 219, che permette di praticare l’eutanasia, come abbiamo già accennato, non iniziando terapie salvavita, interrompendo terapie salvavita – venendo, ad esempio, staccati dai macchinari di sostegno vitale – oppure chiedendo la sedazione profonda continua. La consulta ha poi aggiunto come strumento di morte, l’aiuto al suicidio. I radicali chiedono che il contenuto di questa sentenza diventi legge e che in tale legge si contempli come ulteriore soluzione eutanasica anche l’iniezione letale.