Armi all'Ucraina: così l'Italia si esclude dal ruolo di mediatore
La visita di Mario Draghi a Washington non cambia la sostanza del ruolo italiano. Anche l'Italia continuerà a mandare armi all'Ucraina. Si tratta di armamenti obsoleti che non faranno la differenza sul campo di battaglia. In compenso, il loro invio ci preclude il ruolo di mediatore fra Russia e Nato, cioè quel che facevamo da 20 anni.
La visita di Mario Draghi a Washington sembra aver ribadito il pieno allineamento dell’Italia agli Stati Uniti sul conflitto ucraino e, benché il presidente del consiglio abbia evidenziato l’esigenza di intavolare trattative per giungere ad una rapida conclusione del conflitto, non sembra sia stata messa in dubbio la volontà del governo di Roma di continuare a sostenere con forniture di armi le forze armate ucraine.
Il tema verrà discusso in ambito politico la prossima settimana quando Draghi è atteso in Parlamento per relazionare sui contenuti del viaggio negli Usa, ma è da tempo evidente che non tutti i partiti che sostengono la maggioranza di governo sono favorevoli a continuare a fornire armi all’Ucraina. Benché le tipologie di armamenti ed equipaggiamenti ceduti all’esercito di Kiev vengano mantenuti segreti dall’esecutivo, che ne informa solo il Copasir, indiscrezioni di stampa hanno evidenziato come finora l’Italia abbia ceduto agli ucraini mortai, mitragliatrici, missili anticarro Milan, missili antiaerei Stinger, munizioni ed altri equipaggiamenti.
Le milizie filo-russe del Donbass hanno mostrato sui loro canali d’informazione molte armi di produzione occidentale catturate in battaglia all’esercito ucraino, inclusi proiettili da mortaio e missili anticarro di fornitura italiana. Un secondo lotto, più corposo e che includerebbe anche veicoli e artiglieria, potrebbe riguardare cingolati M113, semoventi d’artiglieria M109, veicoli blindati Lince o blindo pesanti Centauro: mezzi da tempo radiati dal nostro esercito (molti dei quali sono molto usurati) oppure che sono in fase di sostituzione con nuove dotazioni. Una terza tranche di aiuti militari potrebbe riguardare sistemi elettronici e anti-drone ma si tratta solo di ipotesi e indiscrezioni della stampa.
Di certo gli aiuti militari italiani, per quantità e qualità, non saranno decisivi né influiranno in alcun modo sull’esito del conflitto, ma rappresentano semmai l’ennesimo “obolo” che Roma paga all’alleanza con gli Stati Uniti.
Anche in termini di contributi militari alla mobilitazione delle nazioni della Nato ai confini con Russia e Ucraina il ruolo italiano è in crescita ma con un coinvolgimento di uomini e mezzi non particolarmente gravoso. Ai 240 soldati schierati in Lettonia e ai 170 militari dell’aeronautica dislocati in Romania (aeroporto militare di Costanza), con 8 caccia Typhoon, si stanno per aggiungere probabilmente più di 600 fanti assegnati ai battaglioni multinazionali della NATO in costituzione in Bulgaria e Ungheria. Reparti che hanno compiti di deterrenza, cioè mostrano i muscoli della Nato ai confini del teatro bellico.
Il ruolo italiano nella crisi ucraina ha quindi una dimensione militare limitata, ma che ha pregiudicato, soprattutto con l’invio di armi a Kiev, il peso rilevante che forse Roma avrebbe potuto avere in ambito diplomatico ricoprendo il ruolo tradizionale di “ponte” tra Occidente e Russia. Ruolo che, con ogni governo, l’Italia degli ultimi 20 anni ha rivestito a partire dal vertice Nato di Pratica di Mare del 2002 in cui Silvio Berlusconi volle fosse presente anche Vladimir Putin. Giustificare il riposizionamento del governo italiano nella schiera dei Paesi ostili a Mosca con la motivazione che i russi sono gli aggressori e gli ucraini gli aggrediti ha poco senso in termini politici e strategici. Innanzitutto perchè questa guerra non è cominciata il 24 febbraio di quest’anno ma ha preso il via nel 2014 anche se i 14 mila morti della guerra nel Donbass li abbiamo del tutto ignorati come le violenze delle truppe di Kiev sui civili russofoni riconosciute pure dall’ONU. Inoltre l’attuale conflitto è anche una guerra civile poiché ucraine sono le popolazioni russofone o filo-russe del Donbass e ucraini sono pure i combattenti degli eserciti delle province secessioniste di Donetsk e Luhansk, a cui Mosca attribuisce lo status di repubbliche popolari.
Riconoscere l’importanza di questi elementi contrasterebbe forse con la retorica e la propaganda anti-russa che pervadono ormai la comunicazione politica e mediatica italiana e occidentale, ma permetterebbe di ritagliarsi spazi negoziali su cui imbastire trattative tese a concludere prima possibile questa guerra riducendo così i gravissimi danni che infligge all’Europa.