Armenia, una rivoluzione di velluto nel Caucaso
Alla vigilia del 24 aprile, giorno del ricordo del genocidio del 1915, gli armeni portano a compimento una rivoluzione pacifica. Spinto dalla protesta di piazza, il premier ed ex presidente Serzh Sargsyan rassegna le dimissioni, dopo che aveva provato a prolungare il suo potere con una riforma costituzionale.
Nel silenzio pressoché completo dei media occidentali, una piccola crisi si è consumata e (probabilmente) conclusa pacificamente nella repubblica di Armenia. Indipendente dal 1991, coinvolta nel lungo conflitto con il vicino Azerbaigian, l’Armenia è governata dal 2008 dal presidente Serzh Sargsyan. La sua riforma costituzionale, solo apparentemente volta a rendere il sistema più democratico, si era scoperta essere un bluff: aveva l’unico scopo apparente di prolungare il suo potere. L’opposizione è scesa in piazza per quasi una settimana e dopo un serrato confronto con le forze dell’ordine e lo stesso ex presidente, si è giunti alla ritirata di quest’ultimo.
Sargsyan aveva scalato tutti i gradini del potere in Armenia. La sua prima carica, nel 1979 (sul finire dell’era Brezhnev) era quella di leader della Gioventù Comunista di Stepanakert, la capitale del Nagorno Karabakh, regione armena incastonata nel vicino Azerbaigian, per la quale tuttora si combatte. Nel 1990, ultimo anno dell’Unione Sovietica, entrò a far parte del Soviet Supremo. La sua origine del Nagorno-Karabakh fu essenziale per la sua carriera post-sovietica, perché la lotta per la difesa della regione armena nell’Azerbaigian, la paura di una ripresa di un genocidio degli armeni ad opera dei turchi e dei loro alleati locali, fu il maggior cemento dell’identità nazionale nei primi anni dell’indipendenza. Sargsyan divenne ministro della Difesa in piena guerra con l’Azerbaigian, nel 1993. Dopo aver ricoperto altri importanti incarichi governativi, arrivò alla guida del governo nel 2007 e l’anno successivo divenne presidente. Non senza contestazioni. L’Osce non ebbe nulla da ridire, ma i sostenitori del candidato suo rivale, Levon Ter Petrossian scatenarono la piazza. Gli scontri a Erevan provocarono 10 morti, di cui 2 poliziotti e 8 manifestanti. Fra i leader della piazza arrestati c’era anche Nikol Pashinyan, un uomo che si rivelerà molto importante nel seguito della vicenda.
Serzh Sargsyan ha governato l’Armenia, una repubblica semi-presidenziale, per dieci anni, due mandati di fila. Le condizioni internazionali non sono affatto facili. Oltre al conflitto sempre latente nel Nagorno-Karabakh (gli ultimi combattimenti sono avvenuti nel 2016, con decine di caduti), i confini della Turchia e dell’Azerbaigian rimangono ermeticamente chiusi. Per necessità, l’Armenia deve basarsi sull’alleanza con la Russia, che provvede alla sua difesa militare. Dal 2013, l’Armenia è parte dell’Unione Euroasiatica promossa da Putin per l’integrazione delle repubbliche ex sovietiche, considerata come contraltare alle proposte di adesione all’Unione Europea. L’Armenia mantiene rapporti cordiali anche con gli altri due vicini: l’Iran e la Georgia. Come Putin nella vicina Russia, anche Sargsyan ha saputo trasformare il suo background comunista in una linea politica fortemente nazionalista. Anche a scapito della libertà dei suoi cittadini: l’Armenia è, da ogni punto di vista, un paese democratico, ma semi-libero, con problemi di corruzione endemica, abusi d’ufficio, condizionamento politico del potere giudiziario, manipolazione del voto. Nel 2015, il presidente Sargsyan ha promosso un referendum per la riforma della Costituzione. Ufficialmente per eliminare il problema della concentrazione di potere nelle mani del presidente, ha trasformato l’Armenia da repubblica semi-presidenziale in una puramente parlamentare, con più potere nelle mani del governo. Contestualmente alla vittoria del Sì referendario, a favore della riforma, Sargsyan prometteva di non candidarsi premier e di lasciar spazio a un nuovo governo. Promessa non mantenuta. La riforma si è rivelata ben presto come un espediente per ritagliare un terzo mandato presidenziale di Sargsyan, oltre il limite invalicabile del secondo. Dimessosi da capo di Stato il 9 aprile, secondo i termini, gli è succeduto Armen Sarkissian, un suo fedelissimo. Poi, il 17 aprile, Sargsyan è stato incaricato di formare il nuovo governo. Insomma, i poteri trasferiti al governo erano per lui.
L’opposizione è scesa in piazza immediatamente, con un'organizzazione capillare capace di mobilitare all'istante decine di migliaia di persone. A guidare la protesta, una vecchia conoscenza: Nikol Pashinyan, che era tornato in libertà nel 2011, a seguito di un’amnistia e dal 2012 divenuto deputato d’opposizione nel partito di Petrosian, Congresso Nazionale, poi è divenuto leader della formazione Contratto Civile. La protesta pareva trasformarsi in un processo violento e irreversibile dopo la mediazione fallita del nuovo presidente Armen Sarkissian, che si era levato la cravatta in segno di dialogo con il popolo. Poi dopo un tentativo di dialogo subito abortito fra Sargsyan e Pashinyan, il 22 aprile quest’ultimo veniva arrestato assieme ad altri due leader della piazza. A quel punto, però, una parte dell’esercito ha iniziato a dimostrare (senza armi) al fianco degli oppositori. Deve essere stato questo il motivo principale che ha determinato la conclusione della vicenda. Sargsyan, a sorpresa, ha fatto ieri un passo indietro e ha dato le dimissioni, alla vigilia del giorno in cui si celebra la memoria del genocidio armeno del 1915 (24 aprile, oggi per chi legge). Il suo discorso di addio stupisce per la sua pacatezza, in una situazione di tensione al calor bianco: “Mi rivolgo ai cittadini armeni e al movimento Respingi Serge. Nikol Pashinyan aveva ragione. Io avevo torto. Questa situazione richiede soluzioni, ma io non parteciperò. Lascerò l’incarico di primo ministro. Il movimento sceso per le strade è contro di me. Soddisferò le vostre richieste”.
La crisi armena è singolare sotto molti aspetti. Siamo soliti ricondurre tutto ciò che avviene nello spazio ex sovietico come un conflitto di influenza fra Usa e Russia, nell’ambito della nuova guerra fredda. Non così per l’Armenia, dove l’opposizione non ha mai inteso mirare all’adesione all’Ue o alla Nato, né chiede il ritiro delle forze russe dal territorio armeno. Da un punto di vista internazionale, la linea politica dell’Armenia è dettata dal suo storico conflitto con Turchia e Azerbaigian (l’una membro e l’altro partner della Nato) e difficilmente cambierebbe schieramento. Per una volta, almeno, la crisi interna all’Armenia sarà vista come una … crisi interna. Tipica, per altro, di tutte le repubbliche che componevano l’ex Urss, dove leader che hanno fatto carriera nel Partito non accettano di cedere l’incarico a un opposizione democraticamente eletta. Anche da questo punto di vista, l’Armenia potrebbe costituire una felice eccezione.