Antonio Canova, gloria dell'arte e della Chiesa
Due secoli fa moriva il grande scultore originario di Possagno, nel Trevigiano. Di origini modeste e di straordinario talento, la fede che ne aveva ispirato le opere monumentali lo accompagnò fino all'ultimo respiro. I funerali solenni celebrarono insieme l'artista e il credente.
Due secoli or sono, la mattina del 13 ottobre 1822, a Venezia «morì sublimemente cristiano» (M. Missirini, Della vita di Antonio Canova, Milano 1825, p. 417) l’artista per opera del quale «la scultura usciva rinnovellata», come si legge sulla lapide posta sulla porta del suo studio romano: Antonio Canova.
Era nato 65 anni prima, il primo novembre 1757 a Possagno, un piccolo paese in provincia di Treviso. Il nonno paterno Pasino (†1794), un valido scalpellino, avvia il piccolo Canova al lavoro della pietra. All’età di 11 anni, Antonio va a Venezia dove studia disegno e frequenta l'accademia del nudo presso la scuola delle arti. Diventa un protagonista del neoclassicismo, ovvero il ritorno alle forme e alla bellezza di Grecia e Roma antica.
A Venezia Canova modella le prime sculture monumentali: l'Orfeo e l'Euridice, Dedalo e Icaro. Nel 1779 si reca a Roma, dove scolpisce capolavori come Amore e Psiche (1793), la sua opera più celebre, e i quattro dedicati ai papi: Monumento a Clemente XIV (1783), il monumento a Clemente XIII (1792), il Busto di Pio VII (1805) e il Pio VI orante (1821). Le sue opere sono troppe da poterle menzionare. Nominato Ispettore Generale di Antichità e belle Arti dello Stato Pontificio nel 1802 da papa Pio VII (†1823), nel 1815 Canova si adopera con successo per il ritorno a Roma delle opere sottratte da Napoleone (†1821) agli Stati Romani con il trattato di Tolentino (1797).
Il grande scultore torna spesso nel luogo natale, dove si cimenta nella pittura. Nel 1818, anziché riparare la chiesa parrocchiale di Possagno prende «la risoluzione di farne edificare una nuova, a mie spese…» (Lettere familiari inedite di A. Canova, Venezia 1835, p. 87): è il tempio di Possagno, anzi Chiesa della Santissima Trinità, che unisce la cella del Pantheon di Roma al pronao del Partenone. I vecchi disturbi di stomaco di Canova diventano sempre più acuti. Presso piazza S. Marco a Venezia, dopo aver ricevuto i sacramenti che preparano all'incontro con il Dio vivente, mezz’ora prima di morire «quell’anima pura e bella era a quel momento in colloquio con Dio» (Missirini, ibidem, p. 197). Pronuncia spirando le sue ultime parole: «O Signore! Voi mi avete dato il bene che ho avuto in questo mondo, e voi mel ritogliete: sia benedetto in eterno il vostro nome!». Lasciò per testamento, tra le altre cose, «al Sommo Pontefice Papa Pio VII, suo costante benefattore, quell’oggetto qualunque della sua eredità che più potesse essergli grato» (Missirini, ibidem, p. 200).
I funerali solenni si celebrano a Roma il 31 gennaio 1823 nella Basilica dei Santi XII Apostoli, allestiti dall’Accademia romana di San Luca (associazione di artisti fondata nel 1593), di cui lo scultore era membro, alla presenza del camerlengo e del Senato di Roma. L’organizzazione fu affidata all’architetto romano Giuseppe Valadier (†1839), il quale «innanzi ogni altra cosa, immaginò che le più celebri sculture sacre fatte dal Canova dovessero concorrere ad ornare la pompa funebre del loro autore. Per la qual cosa finse nel mezzo della chiesa un maestoso ma semplice monumento di marmo bianco. […] La solenne messa di Requiem fu pontificata da sua eccellenza reverendissima monsignor [Carlo] Zen [†1825], arcivescovo di Calcedonia, segretario della sacra congregazione dei vescovi e regolari, patrizio veneto e cantata a due orchestre con musica del celebre Jommella diretta dal signor maestro [Pietro] Terziani [†1831]. Il valoroso tenore signor [Giovanni] David [†1864] s’offrì spontaneo ad onorare la memoria del Canova e cantò coll’usato suo magistero il versetto Benedictus scritto espressamente dal maestro Terziani» (Diario di Roma, 5 febbraio 1823, pp. 2-11).
Per una circostanza tanto importante nel 1823 si sceglie una partitura, benché ristrumentata «a due orchestre», scritta a Stoccarda, Germania sud-occidentale, nel 1756 per i funerali della madre del duca di Württemberg Carlo Eugenio: il notevole Requiem del compositore di Aversa Niccolò Jommelli (†1774), musicista di chiesa e di teatro, una delle figure più importanti della scuola musicale napoletana. Si tratta della più celebre Missa pro defunctis prima di quella incompiuta di Mozart. È concepita per soli (soprano, contralto, tenore e basso), archi e basso continuo (forma di accompagnamento improvvisato all’organo o al clavicembalo, propria dei secoli XVII e XVIII). Nei passaggi solistici si può riconoscere la mano dell’operista; quelli corali, creati in modo semplice ma efficace, sono in parte scritti nello stile antico, con il contrappunto barocco, e in parte si alternano ai solisti con numerose dissonanze sospese.
L’ascolto di questo Requiem «toccante, stupefacente e pieno di sorprese» (K. G. Fellerer, Der Palestrinastil und seine Bedeutung in der vokalen Kirchenmusik des 18 Jahrhunderts, Augusta 1929, p. 160, nostra traduzione) sia la nostra commemorazione musicale di quella fulgida gloria della Chiesa cattolica, generosamente protetta e benignamente favorita dal Pontificato romano, che fu Antonio Canova.