Antieroi e deliri da superuomo: due facce dell'oggi
Quando nella contemporaneità Dio non è riconosciuto, se tutto è destinato alla morte e alla distruzione, rimane solo l’impegno volontaristico di affermazione che può portare alla frustrazione e fin alla pazzia se insoddisfatto, ad un senso di solitudine e di tristezza anche qualora raggiungesse il suo obiettivo.
Quando si è soli, o meglio ci si percepisce da soli, è più facile essere colti da deliri di onnipotenza. Così è accaduto al Capaneo dantesco, che sa che c’è Dio, ma lo rifiuta e vi si contrappone per affermare sé fino in fondo. Bestemmia Dio anche all’Inferno, anche quando subisce la punizione e sofferenze inaudibili. Tra Ottocento e Novecento questa percezione di solitudine ha fatto pullulare l’universo letterario di figure inette e pazze o di superuomini, in fondo due facce della stessa medaglia.
Una rapida incursione nel territorio della letteratura dei decenni decadenti ci permetterebbe di sorprendere subito una caratteristica dei personaggi che popolano romanzi e versi scritti in quegli anni. Già i titoli delle opere sottolineano la coscienza della crisi e la poca considerazione di sé proprie dell’uomo: pensiamo a Sogno di un uomo ridicolo (Dostoevskij), a Senilità (Svevo), a Il poeta come saltimbanco (Aldo Palazzeschi), a Il fanciullino (Giovanni Pascoli). Lungi dalla pretesa graniticità dell’eroe antico, l’uomo del Decadentismo mostra fino quasi all’ostentazione la propria pochezza e fragilità.
Quell’uomo che era convinto fino ad un secolo prima di creare una civiltà nuova ha verificato l’inconsistenza delle proprie pretese e vive negli anni di fin de siècle il miraggio della Belle Époque, ultima illusione di spensieratezza foriera della imminente guerra. Ora, quell’uomo non si illude più di poter fare a meno di Dio, non si propone più nel suo sforzo prometeico e titanico di accedere all’Olimpo o di carpire i segreti della conoscenza. Con disincantata ironia, anzi, toglie le maschere e le superbe vesti e palesa a tutti che, crollati i grandi progetti, i suoi discorsi non possono essere presi troppo sul serio perché è un clown, un uomo ridicolo, un saltimbanco che ama giocare e scherzare, un bambino.
L’uomo ridicolo di Dostoevskij vorrebbe suicidarsi all’inizio del racconto, quando incontra una povera bambina. Ritornato a casa, si accorge di aver provato compassione per lei e, mentre i propositi suicidi si allontanano, si addormenta. Nel sogno gli viene rivelata la verità sulla vita e sul mondo. Svegliatosi, decide di dedicare tutta la sua vita alla predicazione del Mistero che gli è stato rivelato. Nei romanzi di Dostoevskij questa moltitudine di gente derelitta, abitante del sottosuolo, trova albergo assieme a figure come Alëša o il Principe Miskyn, testimoni viventi dell’ansia di verità e di amore che mai saranno sopiti nell’uomo, personaggi puri che hanno scelto la strada della santità e vogliono vivere per l’eternità.
Inettitudine è parola d’ordine di tutti i personaggi di Svevo. In Una vita Alfonso Nitti metterà in atto il proposito del suicidio. In maniera significativa il primo titolo del romanzo, Un inetto, che venne rifiutato dalla casa editrice, esprime, però, perfettamente l’inadeguatezza del personaggio alla vita. Baciato dalla sorte, fidanzatosi quasi senza volerlo ad Annetta, avvenente e benestante ragazza dalle velleità intellettuali, Alfonso percepirà nel tempo di non essere all’altezza della situazione e, preso dalla paura di vivere, con la scusa della malattia della mamma ritornerà al suo paesino, ove troverà la madre effettivamente malata gravemente. La morte di lei porterà Alfonso di nuovo a Trieste ove cercherà di rivedere Annetta. Sarà, però, troppo tardi. La ragazza si è fidanzata con Macario, un partito migliore. Alfonso, sfidato a duello dal fratello di Annetta, fugge dalla vita e si suicida con il gas dell’automobile.
Parodia dell’Andrea Sperelli dannunziano, Emilio Brentani si illude in Senilità di poter corteggiare la bella Angiolina, senza legarsi sentimentalmente e affettivamente a lei. Brentani si inganna, non può instaurare una relazione senza creare un legame e alla fine ritornerà solo, lascerà Angiolina, dopo aver perso la sorella Amalia, che rappresenta ancor di più l’esasperazione dell’incapacità a vivere. La sorella muore alcolizzata, senza che il fratello si avveda della sua inquietudine e tristezza, senza aver neppure provato l’avventura dell’amore, ma avendo solo vagheggiato in sogno la possibilità di un legame con l’affascinante, quanto superficiale e impossibile, scultore Stefano Balli. La senilità, cioè una vecchiaia precoce, propria di chi pensa di saper già tutto della vita e dell’amore e che perciò la realtà non abbia più niente da insegnare, si impadronisce di Brentani, che, dopo la vicenda amorosa con Angiolina, ritorna allo sguardo lucido, intellettuale, cinico e triste che aveva prima. Tra gli inetti del mondo letterario di Svevo non si può, poi, trascurare quel Zeno Cosini, protagonista de La coscienza di Zeno, che sembra non scegliere mai nella vita. Non sa scegliere l’università, non riesce a smettere di fumare, si sposa proprio con quella figlia del Malfenti che mai avrebbe voluto sposare perché brutta. L’unica consapevolezza che Zeno sembra aver acquisito è che la malattia, più che carattere suo specifico, è attributo inscindibile della vita dell’uomo ed è sempre, per tutti, una malattia mortale, da cui non si può guarire. La malattia è, quindi, prerogativa stessa della vita, condizione inalienabile dell’uomo, che solo una catastrofe inaudita potrebbe eliminare, estinguendo, però, al contempo il genere umano.
Oltre che di inetti e di malati, la vasta compagnia dei personaggi decadenti si popola poi di pazzi, figure che non guardano la realtà secondo gli stereotipi comuni, ma che rifuggono dalle forme e dalle convenzioni imposte dalla società. Un Enrico IV che nell’epoca contemporanea sceglie di vivere nei panni dell’Imperatore che si recò nel 1077 da Matilde di Canossa. Un Belluca che sconcerta il capo gridando a ripetizione ripetutamente: «Il treno ha fischiato». Un Vitangelo Moscarda che rifugge dalla società, vende tutto, lascia la famiglia e rinuncia al suo nome, apparendo allo sguardo di tutti come un pazzo. Questi sono alcuni dei folli dell’universo pirandelliano, sul quale non poche suggestioni giocò la vicenda autobiografica dei disturbi psichiatrici della moglie.
Gli inetti sveviani sono parenti stretti di quei personaggi dannunziani che inseguono disperatamente la riuscita nella vita, in qualsiasi ambito, dall’arte alla conquista sentimentale fino all’impresa sportiva. Dopo la lettura in traduzione di Nietzsche, avvenuta dal 1892, l’universo romanzesco di D’Annunzio si popola di superuomini che interpretano le passioni di quel poeta che è stato anche romanziere, pilota, soldato, politico, conquistatore di donne. Nelle Vergini delle rocce il poeta soldato Claudio Cantelmo vorrebbe il ritorno ad un’élite intellettuale e politica contro la plebaglia democratica e incolta e deve scegliere una delle tre figlie del principe Capece Mantega che concepirà il superuomo, colui che ridarà lustro ai fasti antichi dell’Italia. Nel Fuoco Stelio Effrena è l’esteta che vuole generare un nuovo genere artistico dalla commistione di musica, danza e poesia. Morto il grande musicista tedesco Richard Wagner, durante il funerale aiuterà a portare la sua bara ereditandone in maniera simbolica il testimone. Entrambi non raggiungono l’obiettivo prefissato e falliscono. Anche Paolo Tarsis, evidente parodia di san Paolo di Tarso, l’unico personaggio dannunziano che riesce nell’impresa progettata (la traversata del Mar Tirreno), appare come una reviviscenza dell’homo divus rinascimentale che si deve affermare in un ambito piuttosto che un’attualizzazione del superuomo nietzscheano. Non c’è nulla di nuovo nelle figure dannunziane che poco hanno in comune, è bene dirlo, con il superuomo teorizzato dal filosofo tedesco.
Annichilimento di tutti i valori del passato, annullamento della tradizione, volontà di potenza e creazione di nuovi valori sono per Nietzsche gli aspetti salienti del superuomo, che, in maniera simile al bambino, non conosce passato e futuro, ma vive solo per il presente. Proprio al bambino, quindi, si dovrebbe rivolgere l’uomo nuovo nietzscheano. In Così parlò Zarathustra Nietzsche scrive: «E Zarathustra parlò così alla gente: «Io vi insegno il superuomo. L’uomo è qualcosa che deve essere superato. Che cosa avete fatto voi per superarlo? Finora tutti gli esseri hanno creato qualcosa al di sopra di sé: e voi volete essere il riflusso di questa grande marea, e regredire alla bestia piuttosto che superare l’uomo? Che cos’è la scimmia per l’uomo? Una risata di scherno o una penosa vergogna. […] Il superuomo è il senso della terra. La vostra volontà dica: il superuomo sia il senso della terra»». La fedeltà alla Terra è per Nietzsche la conseguenza diretta della fine dell’illusione della trascendenza, che non può più persuadere l’uomo contemporaneo. Ecco il nuovo verbo: «Vi scongiuro, fratelli miei, rimanete fedeli alla terra, e non prestate fede a coloro che vi parlano di speranze ultraterrene! Si tratta di avvelenatori, che lo sappiano o meno. Spregiatori della vita, moribondi, essi stessi avvelenati, di loro la terra è stanca: possano scomparire!»
Quando nella contemporaneità Dio non è riconosciuto, se tutto è destinato alla morte e alla distruzione, rimane solo l’impegno volontaristico di affermazione che può portare alla frustrazione e fin alla pazzia se insoddisfatto, ad un senso di solitudine e di tristezza anche qualora raggiungesse il suo obiettivo.